Martedi, 22/12/2020 - I pescatori di Mazara sono tornati a casa dalla Libia di Haftar, dopo 108 giorni, accompagnati da molteplici commenti e sentimenti, testimoni di giorni di prigionia descritti come violenti e umilianti. Sono stati protagonisti ,al di là delle loro volontà, di avvenimenti politici di dimensione non solo europea ma internazionale, 'consegnati' addirittura dal Presidente del consiglio Conte e dal Ministro degli esteri Di Maio da Haftar, sollevando polemiche e interrogativi pesanti sul comportamento dell’Italia e su possibili retroscena.
Lasciando a ben altri commentatori di proseguire o silenziare l’analisi degli eventi, c’è una storia nella storia su cui mi sembra interessante soffermarsi per evidenziarla e rifletterci.
La storia è quella delle donne - madri, mogli e figlie - dei 18 pescatori dell’Antartide e del Medinea, i due pescherecci, e della loro scesa in campo, unite come una falange impenetrabile. Donne di età, ruoli, nazionalità molteplici, ma unite da un collante formidabile e inscindibile: far tornare i loro uomini a casa. Unite da una mitologica interpretazione del lavoro di cura.
"La mia guerriera", ha definito sua moglia con orgoglio uno dei 18 pescatori, intervistato seduto sul divano, abbracciandola. Un'immagine eloquente, lui di nuovo al caldo della sua famiglia e contornato dall’albero, simbolo di questo strano ma, per quelle famiglie, felicissimo Natale.
Non avendo chi scrive mai avuto consuetudini col mondo della pesca, pur tuttavia rileva riferimenti culturali universalmente noti che aiutano e stimolano a riflettere.
La pesca o la marineria, come viene definita la professione dei lavoratori del mare, porta gli uomini (perché ancora oggi ne sono loro i sostanziali protagonisti), per lunghi periodi e giorni infiniti lontano da casa. Le famiglie, le donne coi figli e gli anziani che a loro volta quasi sempre sono stati pescatori, attendono ogni volta e quasi sempre con un sottofondo d’ansia il ritorno dei pescherecci. Ansia perché il mare non è mai un luogo davvero sicuro. Non è casuale che fra le donne di Mazara in guerra per i loro cari abbiamo imparato a conoscere, fra le altre, mamma Rosetta che all’angoscia che le univa tutte lei raddoppiava perché di figlio in mare come pescatore ne aveva già perso uno.
Ed eccole queste donne sulle quali si sofferma il pensiero, donne che dopo il fatidico 1° settembre 2020 - data del sequestro - e passato il primo sbigottimento e azzerata la speranza che come altre volte venissero rilasciati in pochi giorni, hanno partecipato in massa alle manifestazioni organizzate a Mazara. Poi sono scese in campo "in proprio": si sono organizzate e hanno messo in atto la loro battaglia. E allora eccole, giorni e giorni insieme e a turno come presidio davanti al Parlamento, contando - si può dare per scontato- su altre donne che a casa garantivano la cura quotidiana di ragazzi e anziani.
Presenti in trasmissioni, in una infinità di canali, sottoposte a interviste spesso difficili per le domande impegnative sulla politica, su quanto pensassero o sapessero delle azioni del governo, angosciate da non riuscire a sentire al telefono i loro cari, ma sempre agguerrite, raccontando e rivendicando la vita, la fatica, ma anche l’orgoglio di un lavoro - la pesca - che nonostante l’importanza che dovrebbe vedersi riconosciuta in una penisola come l’Italia è molto ignorato e sconosciuto rispetto alle molteplici professionalità che vanta, alle difficoltà e rischi che comporta.
Il sequestro in Libia dei 18 pescatori marinai Mazaresi - così sempre definiti volutamente e non incidentalmente con orgoglio in quanto per precisione italiani, tunisini, senegalesi, indonesiani - per le “loro” donne è stato vissuto come un sequestro anche delle loro vite , come ho sentito suggerire, con una considerazione efficace, da una persona amica, che ha portato ad un protagonismo eccezionale per difendere il loro mondo.
E allora quello che noi chiamiamo lavoro di cura, nello specifico delle donne dei pescatori, alzato il tiro e di molto, si è trasformato nel battersi per il loro ritorno, per la ricomposizione delle famiglie, per la normalizzazione delle loro vite con la ripresa di una attività, di un lavoro, di una professione da cui dipendevano 18 vite e contemporaneamente le 18 famiglie dei 18 marinai pescatori al di là delle loro origini o dei luoghi di vita che nel caso dell’Indonesia abbiamo potuto vedere grazie alla tecnologia nella gioia di una famiglia, per andare al concreto .
Le donne di Mazara, che mentre scrivo certamente sono tornate alle loro famiglie, e che stanno finalmente tornando alle singole storie individuali, ascoltando i racconti, intrecciando le idee che guardano al domani, hanno rappresentato qualcosa d’antico, forse di eterno: la discesa in campo estrema, in una unione temporanea ma incrollabile senza se né ma, riflettendo sul che fare, sul come affrontare per dare il proprio contributo a risolvere una situazione inedita ed estrema.
Ed è forse proprio in quella frase affettuosa eppur potente con cui uno dei marinai ha definita sua moglie - “la mia guerriera“ - c’è la sintesi della modalità con cui le donne di Mazara sono scese in campo, come altre volte nella storia recente, lontana e lontanissima e persino nella mitologia dando prova della loro forza e determinazione che come una magia si materializza quando davvero serve, per poi rientrare nel silenzio quando ha dato i suoi frutti.
Ed è proprio citando storia, magia e mitologia del mare e della sua vita che una piccola-grande digressione mi sembra quasi ineludibile, per finire parlando di Mazzara, di marineria di pescherecci di pesca. E’ allora il ricordare che è proprio una pesca davvero mitica del 1997 che da 500 metri sotto il mare ha riportato a noi, grazie al peschereccio Capitan Ciccio e al suo capitano Francesco Adragna della flotta marinara di Mazara, la meravigliosa e misteriosamente affascinante statua di bronzo alta ben 2m e ½, presumibilmente del IV- V secolo Ac, del Satiro danzante oggi restaurato e ospite nel museo di Mazara forse per sempre un testimone del mistero, nel bene e nel male, e della magia che il mare nasconde.
Paola Ortensi
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