'LE DONNE SONO UN SOLO POPOLO SPARSO OVUNQUE NEL MONDO' - di Cecilia Dalla Negra
Serve maggiore uniformità internazionale su legislazioni, strumenti di legge e diritto per rendere applicabile la difesa delle donne da ogni forma di discriminazione e violenza
Scrive Shirin Ebadi che “le donne sono un solo popolo sparso ovunque nel mondo: la violenza è il problema che le accomuna tutte, ma che rende anche straordinaria la loro lotta”. Una fotografia scattata di recente a Roma lo ha confermato. Quando, nei primi giorni di ottobre 2011, oltre 400 donne provenienti da 38 paesi del mondo si sono riunite nella XIII Conferenza Internazionale del network “Women Against Violence Europe” (WAVE), creato all’inizio degli anni Novanta per mettere insieme esperienze, pratiche e sforzi di associazioni femminili di 45 paesi, impegnate negli oltre 4 mila centri anti-violenza per le donne in Europa e nel mondo. Avvocate, ricercatrici, psicologhe, rappresentanti di governi e istituzioni, ma soprattutto attiviste e operatrici che hanno fatto del lavoro di accoglienza ad altre donne il proprio quotidiano, e che si sono riunite per parlare di violenza di genere a livello internazionale, tentando di individuare limiti e definire pratiche per rendere più efficace la propria azione. Non una cascata di numeri e percentuali, ma testimonianze dirette e proposte concrete arrivate da chi i diritti delle donne li pratica ogni giorno, non limitandosi a fissarli in convenzioni destinate, il più delle volte, a rimanere lettera morta.
Un’occasione, quella del convegno WAVE, che ha reso un’immagine efficace dello straordinario lavoro svolto dalle donne nei propri paesi, sia sul campo quotidiano che a livello istituzionale, divise tra lobbying serrata a istituzioni e governi e costruzione di case-rifugio capaci di accogliere, solo in Italia e solo nel 2010, quasi 20 mila donne vittime di violenza, spesso accompagnate dai propri figli, in fuga da contesti familiari violenti e discriminatori. Sono 27 mila i centri antiviolenza che dispongono di rifugi soltanto nei paesi membri dell’Unione Europea. Per soddisfare gli standard che le convenzioni del Consiglio d’Europa imporrebbe (un posto letto in casa-rifugio ogni 10 mila abitanti), ne mancano ancora 54 mila. Carenza di fondi, indifferenza delle istituzioni, legislazioni non ancora adattate a ciò che impone il diritto internazionale sono tra i principali ostacoli allo sviluppo di una rete di accoglienza che rappresenta spesso, per le vittime, l’unica via di salvezza.
Al centro del convegno soprattutto le legislazioni vigenti e gli strumenti di legge e diritto necessari a rendere applicabile la difesa delle donne da ogni forma di discriminazione e violenza. Se infatti la violenza di genere è un fattore comune che rende uguali – sebbene con specificità particolari – il nord e il sud del mondo, l’Europa come gli Stati Uniti e il contesto arabo, è pur vero che esistono strumenti legislativi, convenzioni e trattati che, soprattutto in ambito europeo, conservano un altissimo potenziale ancora non sfruttato.
Tra i limiti maggiori nei paesi UE, quello di considerare in modo non omogeneo le violenze di genere, mantenendo differenziazioni che diventano spesso un ostacolo all’azione congiunta. E una riluttanza di fondo da parte delle istituzioni europee a far pesare la propria ingerenza nelle questioni interne degli stati membri che, per tutelare porzioni di sovranità nazionale, mantengono il controllo sui temi di sanità pubblica, welfare, economia e criminalità: tutti ambiti, secondo le esperte del convegno, nei quali violenza di genere e disparità sessuale fanno pagare alla donne il prezzo della mancanza di un principio di eguaglianza dichiarato, ma mai completamente applicato, sebbene ampiamente previsto dal diritto comunitario.
Una storia, quella delle convenzioni internazionali che tutelano i diritti umani e di genere, il cui avvio è da ricercare nei primi anni del Novecento. Siamo a Ginevra nel 1921 quando la prima convenzione contro la violenza prende corpo, pur considerando donne e bambini oggetti passivi che necessitano protezione in quanto “categorie deboli”. Con la nascita delle Nazioni Unite e lo sviluppo del concetto di “diritti umani”, la donna diventa lentamente soggetto di legge titolare di diritti specifici, ma in un contesto in cui l’elaborazione legislativa e concettuale resta fondamentalmente maschile, scontando un approccio e una visione sostanzialmente antropocentrici. La donna resta inquadrata nel proprio contesto familiare da tutelare nella veste di moglie e madre. E’ con l’introduzione della Convenzione sull’Eliminazione di ogni forma di discriminazione contro la donna (CEDAW), elaborata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979, che si profila un quadro legislativo diverso, più efficace nell’affermazione di diritti specifici. Resta però un testo ratificato fra mille riserve, ancora prodotto di un’ottica prettamente maschile, e che come tutti gli strumenti legislativi di diritto internazionale sconta uno scarsissimo livello di controllo e monitoraggio della sua effettiva applicazione.
Ecco allora che, nel maggio del 2011 a Istanbul, come risultato del lavoro di una specifica commissione (il CAVIOH, organismo del Consiglio d’Europa creato per produrre politiche attive contro la violenza di genere e uniformare le azioni di contrasto, cui ha preso parte anche una delegata WAVE) si stipula la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Firmata da 13 stati membri dell’Unione e ancora non ratificata da nessuno, non contempla tra i suoi firmatari l’Italia. Paese in cui la discriminazione femminile è ancora all’ordine del giorno, considerando che il Gender Gap Index (2009) inserisce l’Italia al 72° posto, subito prima dello Yemen, per livelli di parità raggiunta tra uomo e donna in tutti gli ambiti della vita pubblica e privata. Resta, allo stato attuale, l’unico paese europeo a non avere una legislazione specifica contro le discriminazioni omofobiche, e particolarmente arretrato per quanto riguarda diritti sessuali e riproduttivi.
Ecco allora che le donne di tutto il mondo cercano di percorrere, insieme, un cammino comune. Per la prima volta, tra le relatrici, anche esperte ed operatrici provenienti dai paesi del Maghreb e del Mashrek: un contesto, quello del mondo arabo, di cui spesso si ignora la portata del protagonismo femminile nelle lotte di liberazione degli anni Sessanta e Settanta, incentrate - soprattutto in Algeria, Marocco e Tunisia - nell’abolizione e nella riforma di Codici e Statuti di Famiglia. “Non si tratta di paesi in cui la violenza contro le donne è più diffusa – spiega Touria El Houmri, attivista marocchina – ma di tradizioni, costumi e leggi che tendono ad avvallare la violenza contro le donne, rendendola di rado un reato, e comunque considerato minore”. Tra le relatrici arabe donne provenienti da associazioni, reti e movimenti femminili che, nel silenzio generale dei media e dagli anni Sessanta ad oggi, hanno fatto della lotta per l’affermazione dei propri diritti un lavoro quotidiano, sfidando spesso regimi e fondamentalismi. Tra loro anche le operatrici del Mehwar Center palestinese, con base a Beit Sahour, centro nato durante gli anni duri della seconda Intifada e creato grazie agli sforzi della Cooperazione italiana e dell’Associazione “Differenza Donna”, per accogliere giovani donne vittime di violenze di ogni tipo, provenienti da famiglie che rappresentano, spesso, un problema per la loro sicurezza.
Una sala, quella del Convegno WAVE, tutta al femminile: oltre quattrocento donne, tra platea e relatrici, che a dispetto di limiti, discriminazioni e violenze subìte nei propri paesi si uniscono e lottano, rendendosi protagoniste della propria liberazione.
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