Login Registrati
Le donne e la Rivoluzione

Le donne e la Rivoluzione

Ex Unione Sovietica - A 90 anni dalla Rivoluzione russa una breve nota su un percorso d’emancipazione femminile

Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2007

Il 7 novembre ricorre il 90° anniversario della Rivoluzione socialista d’Ottobre. In tutto il mondo sono in corso preparativi per celebrare l’evento, con lo scopo di riflettere su di un’esperienza epocale che, al di là delle opinioni e delle personali posizioni su di essa, rappresentò indubbiamente un “assalto al cielo”.
Il piano di emancipazione della donna e della famiglia che il neonato stato sovietico si accinse a realizzare, immediatamente dopo la rivoluzione d’Ottobre, ne costituisce un esempio. Ancora oggi i primi codici russi sul matrimonio e la famiglia (del 1918 e 1926) costituiscono per diversi aspetti, tenuto conto del contesto e del tempo in cui furono scritti, la punta più avanzata della legislazione sulla donna e sulla famiglia in molti paesi del mondo.
L’attuazione del piano di emancipazione della donna e di sostituzione della forma di famiglia patriarcale feudale con una struttura familiare che non fosse in contraddizione con la più ampia rivoluzione in atto nei rapporti economici e sociali si rivelò come uno dei compiti più difficili e ambiziosi del governo rivoluzionario bolscevico. Nella Russia, che era stata sempre patriarcale, dove prima della nascita del nuovo stato l’80% del paese era contadino, con la relativa cultura, la rivoluzione nei costumi e dentro gli aggregati domestici familiari si abbatté come una tempesta sulle coscienze collettive.
Non sempre questo percorso di emancipazione risultò di facile attuazione, anzi esso fu pervaso nel tempo da una moltitudine di contraddizioni e da fasi di regresso. Ma al di la’ di ciò, credo che la Russia sovietica non abbia completamente fallito nel promuovere la liberazione della donna e della famiglia. Le note Commissioni femminili del partito (zhenotdely), fondate nel 1919, svolsero un ruolo importante nel tentativo di coinvolgere il più possibile le donne nella vita pubblica. Attiviste dei zhenotdely viaggiarono, ad esempio, per l’Asia centrale. Ed anche in quelle terre così lontane, fu possibile cogliere già subito dopo la rivoluzione i primi rarefatti segnali di una difficile emancipazione femminile. Pur incontrando una resistenza ostile, le attiviste del zhenotdel s’impegnarono a fondo perché anche alle donne musulmane fosse riconosciuto il diritto al lavoro e all’istruzione precedentemente proibito. Nel suo celebre libro “L’era di Stalin”, la giornalista americana Anna Louise Strong racconta che durante una visita presso un setificio nella città vecchia di Buchara, il direttore le aveva confidato che la fabbrica era anche uno strumento applicato consapevolmente per spezzare la tradizione del velo: “Noi esigiamo che le operaie si tolgano il velo in fabbrica”. Conclude la Strong che se “nell’Inghilterra capitalista la fabbrica apparve come uno strumento di profitto e di sfruttamento, nell’Unione Sovietica essa non solo fu uno strumento di ricchezza collettiva, ma un mezzo per spezzare vecchie catene”.
Barbara Clements Evans, docente di storia presso l’Università di Akron (Ohio) ed esperta di storia delle donne in Russia, a piena ragione sottolinea “che i successi sovietici non sono per niente paragonabili a quelli di altri stati europei che, ai tempi in cui furono fondate le Commissioni femminili nella Russia sovietica, stavano appena estendendo il diritto di voto alle donne” (per non parlare di paesi come Spagna, Francia, Belgio ecc. che quel diritto lo conquistarono molto più in là negli anni. In Italia, le donne votarono per la prima volta nel 1946).
Nei primi anni di governo sovietico fu implementato ciò che Lapidus definisce come “Soviet-style affirmative-actions program”: alcune leggi abolirono formalmente la discriminazione sessuale sul posto di lavoro e in famiglia; maggiori opportunità professionali e d’istruzione aprirono alle donne spazi e carriere nuove riservate prima solo al sesso “forte”; agevolazioni permisero loro di conciliare meglio l’attività lavorativa con quella domestica e familiare. Furono concessi congedi di maternità e istituite precise norme sui luoghi di lavoro a protezione delle donne in stato di gravidanza; nella vita politica e lavorativa molti furono i reclutamenti al femminile a posizioni dirigenziali. Negli anni Venti, le donne potevano già contare su questi diritti e su una rete di consultori pubblici. E dopo aver conquistato l’istituto del divorzio con il codice del matrimonio e la famiglia del 1918, poterono infine godere di una legge del 1926 che autorizzava l’aborto. Successivamente ci fu la parentesi staliniana, con la quale si assistette ad una vera e propria “controriforma” in materia coniugale e familiare. Ma già dalla fine degli anni Cinquanta, le donne si riappropriarono dei diritti conquistati negli anni Venti.
Certo, la dirigenza sovietica pensava che la discriminazione della donna si sarebbe sostanzialmente risolta con alti livelli d’istruzione e d’occupazione femminile. Una gigantesca semplificazione che ha impedito in quel paese, nel corso del tempo, un reale confronto sul rapporto uomo-donna e lasciate irrisolte alcune fondamentali asimmetrie di genere. Nonostante l’indubbia differenza dei contesti non era, infatti, difficile individuare anche nella ex-Unione sovietica il riproporsi di alcuni nodi tematici che avevano segnato e segnano tuttora pesantemente la vita e la cultura delle donne nei paesi occidentali. In particolare, la contraddizione tra emancipazione e ruolo coniugale e familiare, che restava aperta sia sul piano dell’identità che su quello dell’organizzazione sociale. Inoltre, dalla metà degli anni Settanta, i problemi del disastro degli approvvigionamenti, delle code infinite davanti ai negozi e del degrado dei servizi, con un riflesso negativo sulla conciliazione tra vita privata e sociale della donna (il problema del “doppio carico”) rappresentarono una costante per la cittadina sovietica.
Detto ciò, penso, tuttavia, che la rappresentazione “negativa” o addirittura la rimozione storica e politica della storia delle idee, delle lotte, delle conquiste e dei movimenti delle donne nella Russia sovietica, e in altri paesi del socialismo storicamente realizzato, condannati oggi dalla vulgata popolare ad una “damnatio memoriae”, non faccia bene a nessuno e, in primo luogo, a noi donne, che al contrario dovremmo riappropriarci di quel patrimonio di idee e d’esperienza per quanto di buono e d’attuale esso ci trasmette. Come cancellare, infatti, dalla memoria il contributo teorico e pratico di Krupskaja, Kollontaj, Drabkina, Fofanova, Zetkin ecc.?
In un’epoca in cui la globalizzazione neo-liberista spinge verso un’accentuata polarizzazione sociale, la perdita dei diritti economici e sociali (che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU parifica a quelli umani e civili) delle donne diventa una sfida del nostro tempo. Si potrebbe obiettare che in ogni caso il valore delle “libertà” (in primo luogo, dell’inviolabilità della proprietà privata) è assolutamente prioritario, ma questo è ancora una volta il punto di vista del neo-liberismo. Basti comunque riflettere sul fatto che anche un autore liberal come John Rawls esige sì la subordinazione dell’uguaglianza alla libertà, ma sottopone ad un’importante clausola limitativa tale principio da lui ritenuto valido solo “al di là di un certo livello di reddito e di condizioni di vita”.

(31 ottobre 2007)

Lascia un Commento

©2019 - NoiDonne - Iscrizione ROC n.33421 del 23 /09/ 2019 - P.IVA 00878931005
Privacy Policy - Cookie Policy | Creazione Siti Internet WebDimension®