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Le donne di Vicenza salveranno il mondo

Le donne di Vicenza salveranno il mondo

Comitato No Dal Molin - Sono tante le donne che da mesi animano il comitato che si oppone all’ampliamento della base militare. E stanno sperimentando la contaminazione di pratiche e linguaggi

Monica Lanfranco Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2008

Nella tenda si comincia a sentire l’effetto del riscaldamento, e le membra all’inizio intirizzite si rilassano. C’è anche più tepore perché il tendone è colmo, di donne, in maggioranza, ma c’è anche qualche uomo. La piccola donna vestita di rosso, della quale non capisco il nome apre due fogli di carta scritti a mano, con la calligrafia grossa e un poco incerta. Legge, a voce alta e chiara, una sorta di poesia, un lamento struggente per quella sua porzione di terra, la fontega si chiama, che un tempo lontano, durante la sua giovinezza, era dominata dalle vigne, dai fiori e dalle rane.
“Dove andranno ora le rane, che fine faranno i fiori, le viti, quel vino; che cosa ne sarà di tutto questo, se ci costruiranno sopra una base militare?” si chiede, ci chiede.
Con un momento mattutino di parole di donne, pervaso dalle musiche di uno strumento a corda, dalla voce di un coro femminile che ha cantato una poesia di Rosina, una ottantenne del posto, e l’intensa lettura del brano ‘Pensieri di pace durante un'incursione aerea’ di Virginia Woolf si è conclusa la tre giorni di mobilitazione europea del Comitato No Dal Molin a Vicenza.
Difficile che i giornali ne parlino; gli occhi dei media erano tutti puntati sul corteo del giorno prima, dal quale molti osservatori si aspettavano degenerazioni, che invece, anche se annunciate da una minoranza mossa più dal testosterone che dai contenuti, non ci sono state, e quindi perché restare e seguire una iniziativa di donne?
E invece ci sono tutte, puntuali nel tendone alle undici di domenica le donne che da mesi animano con determinazione e coraggio il Comitato che non vuole l’allargamento della base militare a Vicenza. Ci sono nonostante la stanchezza sia tanta, e non solo per l’organizzazione della tre giorni, ci mancherebbe. Nei mesi che hanno alle spalle queste donne hanno visto la propria vita sconquassarsi, forse per sempre, da questa faccenda della base militare Usa in piena città.
Anna, che abita in centro, si è appassionata grazie al figlio di quindici anni che un giorno è arrivato con un volantino redatto da un centro sociale, e tutto è cominciato, magari solo per l’apprensione tutta genitoriale di capire che posti frequentasse l’adolescente. Poi non si è mai fermata.
“Certo, - dice sorridendo come a scusarsi, - questo No Dal Molin ha preso a noi donne tutto il tempo libero, poco, che avevamo. Dimenticata la palestra e qualche momento di riposo, io almeno sto cercando di salvare spazio per imparare finalmente l’inglese, ma mi sa che anche questo diventerà sempre più difficile”. Anna continua a schernirsi per il presunto disordine di casa, che invece è impeccabile. Il Dal Molin fa capolino anche qui, perché al posto delle classiche riviste di una casa media spuntano dovunque volantini, fly, adesivi, manifesti e materiali del Comitato. Mentre prepara una colazione degna di un hotel a cinque stelle Anna dice che si sente come se avesse dormito per cinquant’anni, e nel dirlo c’è tutta l’importanza e la definitività dell’irruzione di questo evento nella sua esistenza, comunque vada a finire.
Antonella invece abita proprio al limite dell’area dove dovrebbe sorgere l’ampliamento della base, chilometri e chilometri di verde e di terra in ostaggio.
Racconta che quando Marco Paolini venne a vedere l’impressionante estensione di verde destinata allo scempio salì con l’operatore, per filmare meglio, sulla piccola antenna da radioamatore di suo marito, antenna che si trova a due metri dall’uscio di casa. “Nel giro di tre minuti sono arrivate quattro camionette – racconta -. I militari hanno chiesto che cosa stavamo facendo, e noi sconcertati abbiamo domandato se fosse anche vietano montare sulla propria antenna e guardare il panorama”.
Ma il fatto più straordinario che sta accadendo da mesi in questa ordinata cittadina dell’operoso, chiuso e fortemente xenofobo nord est è quello che salta subito agli occhi quando si percorre il quartiere che sorge accanto al perimetro dove potrebbe nascere la futura base militare Usa, un ordinato e ordinario quartiere le cui strade portano tutte, con sfrenata fantasia, i nomi degli aeroporti italiani: via Ciampino, via Fiumicino, via Linate, via Malpensa eccetera.
Ogni villetta di questo quartiere, nessuna esclusa, per la stragrande maggioranza occupata da nuclei familiari che mai si sarebbero sognati di aderire a qualsivoglia campagna politica, specialmente una campagna che può essere annoverata dentro l’abusata categoria tutta giornalistica del ‘no-global’, ha nel giardino una bandiera sulla quale campeggia l’insegna No Dal Molin. E anche ammesso che la maggior parte di queste persone sia soltanto interessata al suo spazio privato, al non avere la rogna della grave ed invasiva presenza inquinante socialmente, acusticamente e ambientalmente di una base militare, e magari se si trattasse di un altro luogo non muoverebbe un dito per impedirlo, il risultato ottenuto da questo movimento, e da queste donne in particolare è enorme.
La loro semplicità, la loro grazia nell’esporre le ragioni dell’essere uscite dalle case tranquille per mescolarsi con i giovani dei centri sociali, con i sindacalisti, con l’attivismo ambientalista nazionale e internazionale, con le Donne in nero, con le femministe, per alcune di loro soggetti fin qui estranei o comunque non facenti parte della formazione è la vera e grande novità che salta subito agli occhi. Assenti dal loro percorso i tradizionali dispositivi ideologici (destra/sinistra, nemico/amico, noi giusto loro sbagliato) le donne No Dal Molin hanno incluso la gente comune perché si sono fatte capire non dalle minoranze militanti, ma dai vicini di casa, spezzando il mortifero ciclo della reclusione dei soli attivisti, perché hanno parlato con il linguaggio del quotidiano, della preoccupazione, della cura e dell’amore per lo spazio comune e pubblico, dando prova di tenerci e di considerarlo altrettanto importante così come chiunque tiene e protegge quello privato.
C’è molto di più, in quello che si sta consumando a Vicenza, rispetto all’opposizione pur giustissima alla costruzione di una ennesima base militare: c’è la ricerca di parole e modi inclusivi e non solo contrappositivi per creare consenso sulle ingiustizie e i pericoli causati della militarizzazione del territorio, e per traslato delle menti; c’è il superamento, rispetto al no necessario dell’inizio, della negazione per costruire aperture, dei sì pieni di progetti, di comunità, di sperimentazione e contaminazione di pratiche e linguaggi; c’è la promessa di pratica politica che lavora su obiettivi, che include e non separa su base ideologica o di tessera. Fragile, certo, questa sperimentazione delle donne del Comitato, e di incerto esito, visto l’entusiasmo con il quale il governo di centro sinistra appoggia la costruzione della base militare a Vicenza. Ma anche i fiocchi di neve sono lievi, uno per uno; eppure insieme danno vita alle candide e solide coltri che qui, per molti mesi, coprono il paesaggio.


(15 gennaio 2008)

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