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Le Donne del Muro Alto compiono 10 anni:  un faro acceso sulle donne detenute

Le Donne del Muro Alto compiono 10 anni: un faro acceso sulle donne detenute

Alla Centrale Preneste Teatro il successo dello spettacolo ‘Olympe’: coraggio, corpo e parola per una nuova drammaturgia dell’incontro. Intervista con la regista Francesca Tricarico

Mercoledi, 29/11/2023 - Un vero e proprio cantiere pedagogico, la due giorni svoltasi presso la Centrale Preneste Teatro a Roma, nei giorni 27 e 28 novembre, a cura
dell’associazione ‘Per Ananke’, che ha proposto due incontri di formazione dal titolo “Teatro in carcere: la drammaturgia contemporanea nei luoghi ristretti”, seguiti dalla messa in scena dello spettacolo ‘Olympe’, una performance artistica di alta qualità, ispirata a ‘La donna che visse per un sogno’ di Maria Rosa Cutrufelli.

Gli incontri formativi sono stati tenuti, con professionalità e grande passione, da Francesca Tricarico, regista e ideatrice del progetto teatrale “Le Donne del Muro Alto”, di cui quest’anno ricorre il decennale, rivolto a donne detenute, ex detenute e donne ammesse alle misure alternative alla detenzione.

ll progetto, promosso quest’anno da Roma Capitale - Assessorato alla Cultura, è vincitore dell'Avviso Pubblico biennale “Culture in Movimento 2023 - 2024”, curato dal Dipartimento Attività Culturali e realizzato in collaborazione con SIAE.

La partecipazione alle due giornate è stata aperta agli operatori del settore ed al pubblico, in modo completamente gratuito, ed ha offerto a studentesse e studenti universitari la possibilità di attivare crediti formativi ma, soprattutto, di entrare in un mondo e in un approccio, quello del teatro in carcere e nel lavoro complesso e bellissimo, doloroso ed entusiasmante che la Compagnia e la regista portano avanti insieme da 10 anni, mescolando, attraverso l’uso del corpo e della parole, della lettura e riscrittura di un testo, del confronto continuo con i personaggi, anche i propri vissuti, il proprio quotidiano e le proprie emozioni.

Gli incontri hanno offerto l’occasione di analizzare la drammaturgia contemporanea nata nei luoghi ristretti, con particolare attenzione al carcere femminile ed ai linguaggi utilizzati nel teatro sociale soprattutto negli allestimenti con attori professionisti o semiprofessionisti provenienti da esperienze detentive. Al termine di ogni spettacolo la compagnia ha incontrato il pubblico e risposto alle domande, per confrontarsi sui temi, i percorsi e le modalità di realizzazione scelti per lo spettacolo stesso.

Lo spettacolo ‘Olympe’, scritto e diretto da Francesca Tricarico e ripensato con le donne della Compagnia in tutti i passaggi dall’ideazione alla rappresentazione sul palco, interpretato dalle attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione e con le musiche di Gerardo Casiello, è tratto, come detto, dal romanzo 'a donna che visse per un sogno' di Maria Rosa Cutrufelli, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2023, e porta avanti un primo studio fatto nel 2015 all’interno del carcere Femminile di Rebibbia.

La storia racconta gli ultimi mesi di vita di Olympe de Gouges (1748 –1793), drammaturga e attivista francese vissuta durante la Rivoluzione, una femminista ante-litteram che dedicò la sua vita e le sue opere ai diritti delle donne, ma anche dei neri, degli orfani, degli anziani, dei disoccupati, dei poveri. Il racconto dei giorni trascorsi in carcere fino al processo, che si conclude con l’esecuzione alla ghigliottina della protagonista, vuole essere un invito a riflettere sui pericoli della censura, della negazione della libertà individuale e sull’importanza della cultura come arma di difesa contro le ingiustizie sociali.

Lo scopo di queste due giornate è stato porre l’attenzione sulle caratteristiche, artistiche e creative, di un teatro che nasce e si sviluppa al di fuori dei luoghi tradizionali e sul come agisca all’interno di questi luoghi tradizionali, favorendo non solo la riflessione sulla drammaturgia e i linguaggi del teatro sociale ma anche un dialogo costruttivo tra società civile e mondo carcerario, al fine di esercitare la cultura alla legalità, contrastare lo stigma legato alla detenzione, con particolare attenzione alla detenzione femminile.

Gli incontri e le rappresentazioni si inseriscono tra le attività culturali volte a offrire occasioni diffuse di socializzazione, crescita culturale e formazione sia per gli spettatori che per le attrici coinvolte attraverso la lettura, il confronto e lo studio di opere teatrali tratte dalla drammaturgia classica e non, rivisitate alla luce delle biografie delle donne coinvolte che hanno vissuto o stanno vivendo la detenzione nel Carcere di Rebibbia Femminile. Rivisitazioni e allestimenti teatrali in grado di attrarre una tipologia di pubblico estremamente variegata, non solo appassionati ed esperti di teatro, ma anche spettatori legati al mondo detentivo e del sociale in generale e spettatori interessati. Un pubblico diversificato che raramente si vede convivere insieme nei teatri tradizionali.

L’associazione ‘Per Ananke’ è nata nel 2007 e, fin dalla sua costituzione, si occupa di teatro, in particolare teatro sociale, lavorando nelle carceri, centri per la salute mentale, scuole di ogni ordine e grado, università. Dal 2013 l'attività teatrale all'interno degli Istituti di Pena diventa l'attività principale dell'associazione con la nascita del progetto Le Donne del Muro Alto, prima nella Casa Circondariale femminile di Rebibbia, portato in seguito nella Casa Circondariale femminile di Latina e nella Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso e oggi anche all'esterno con donne ammesse alle misure alternative alla detenzione ed ex detenute.

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Intervista a Francesca Tricarico: ‘la persona al centro del lavoro: cercando spazi di libertà emotiva, oltre lo stigma e l’isolamento’.

Come è iniziata l’avventura del teatro in carcere e perché hai scelto di lavorare proprio con le donne, fino a creare la compagnia ‘Le Donne del Muro Alto’?
Ho iniziato nel 2013 a lavorare in carcere a Rebibbia, durante un master di Teatro Sociale e sentivo parlare sempre di detenuti uomini che facevano teatro in carcere, studiavano, vincevano premi, si laureavano, e nessuno parlava delle donne; quando chiedevo perché nessuno pensasse a laboratori di teatro con le donne, mi dissuadevano dicendo ‘per carità, con le donne non si può fare teatro, sono violente, rabbiose e incostanti, non riuscirai a combinare niente’, ma proprio per questo, invece, il mio interesse cresceva e si rafforzava. Questo mondo mi affascinava e ho voluto provare: dopo aver superato la diffidenza e qualche scontro iniziale, sono stata conquistata dal desiderio di riscatto che le donne facevano emergere nei laboratori, dal loro impegno nello studio e nella ricerca, mosse dall’obiettivo di mostrare di essere ‘altro’, oltre l’etichetta e lo stigma che spesso le accompagnano (specie nell’Alta Sicurezza). Volevo aiutarle a mostrare questo mondo sommerso, oltre lo stigma e il doppio isolamento che le donne in carcere vivono, come detenute e come donne. Il Teatro ha saputo creare un ‘noi’.


Come lavori nei laboratori con le donne, che tipo di teatro/rappresentazioni cercate di portare al pubblico?
Lavoro con questa Compagnia come con chiunque partecipi a un laboratorio teatrale, in base all’umanità che ho davanti e alle tecniche teatrali, per cominciare. La persona è sempre al centro del lavoro, poiché sempre nel teatro è al centro la persona e poi la relazione. Lavoro col corpo, si inizia ad ascoltare sé stessi, il corpo nello spazio in cui ci si trova, a cercare uno spazio di libertà emotiva, poi si incontra il testo, come risuonano in noi le parole del testo che stiamo per affrontare e come quel testo incontra noi, con gli stati d’animo di quel momento. Ovviamente il nostro è un teatro che cerca le domande e non le risposte, e che negli ultimi anni ho cercato di portare anche al di fuori delle mura del carcere, per tanti motivi, in particolare per accendere un faro sulla detenzione femminile, per rompere il muro del silenzio e portare allo ‘scoperto’ il nostro vissuto, il nostro percorso. Dico sempre che il teatro in carcere fa più bene al fuori che al dentro, è una lente d’ingrandimento sul mondo.

Parlaci del lavoro con le emozioni, le tue e le loro, mentre si costruisce uno spettacolo ... come affrontate i momenti difficili?
Per me è molto importante far emergere le emozioni ed ho lo scudo del teatro, nei momenti difficili o in quelli gioiosi il teatro ci consente di tirare fuori le nostre emozioni in uno spazio protetto, se arrivano brutte notizie (la morte di qualcuno ad esempio) o se vogliamo esprimere il nostro affetto per una persona che amiamo ma è lontana, possiamo usare la potenza della rabbia, del dolore o dell’amore e incanalare queste emozioni per dare intelligenza emotiva, colore ed interpretazione ai nostri personaggi. Il teatro offre un’opportunità unica di provare sentimenti anche forti con un contenimento protetto, potendo usare ogni elemento attraverso il personaggio. Il teatro è una salvezza importante in questo senso. Tra i momenti difficili c’è anche quello del reperimento dei fondi per i nostri progetti, che avrebbero bisogno di continuità, di finanziamenti per progetti almeno triennali ed invece si fa una fatica immane ad ottenerli anche per progetti annuali. Questo dispiace a fronte del lavoro enorme che si fa.

Arrivano in carcere le eco della violenza alle donne, dei femminicidi, delle manifestazioni? Ne parlate nel laboratorio?
Si certo, anche perché questo è da sempre il nostro pane quotidiano: infatti molte delle donne del gruppo hanno subito violenze sulla psiche e sul corpo prima di entrare in carcere o, se non direttamente, le hanno vissute indirettamente tramite i racconti e le esperienze di altre donne. In tutti i nostri spettacoli c’è un’eco di questo aspetto, in ‘Ramona e Giulietta’, ‘Medea in Sartoria’, ‘Amleta’, e infine nello spettacolo di questo decennale, ‘Olympe’, si parla sempre di come viene trattato il tema della violenza e dei diritti delle donne. Olympe, questo personaggio di femminista ante-litteram così poco conosciuta, già nel 1790 trattava questi temi, la libertà di pensiero e di scelta, l’emancipazione. In Olympe questo è evidente, la donna doveva praticare la modestia, una virtù legata alle donne in quell’epoca, per cui altri lavori come lo scrivere erano destinati alla clandestinità e si rischiava la morte. Le attrici detenute hanno fatto un lavoro intenso sull’interpretazione, lo hanno curato e sentito molto ma sono state coinvolte anche nelle scenografie e nei costumi, nelle musiche di Gerardo Casiello, con un lavoro in team importante nell’organizzazione generale di uno spettacolo, per apprendere tutto il lavoro che si fa in un teatro. Per tornare al discorso della violenza, si è anche detto, con la Compagnia che, per combatterla davvero, ci sarebbe bisogno di una vera sorellanza, non solo di quella gridata in piazza, che talvolta è fatta di slogan ma non sempre è poi concreta.

Cosa diresti alle giovani e ai giovani che si vogliono avvicinare alla regia teatrale, al teatro in carcere, al lavoro col teatro sociale in particolare?
Innanzitutto che il teatro in carcere è un’occasione da non perdere ma anche una responsabilità etica, politica e sociale. Bisogna prepararsi per non sprecare questa occasione: in questi giorni abbiamo parlato a circa 600 persone quindi ci si deve preparare. A volte ho l’impressione che manchi un po’ la voglia di ascoltare e di ‘sostare’ prima di fare. Prima di partire è necessario osservare molto, fare tanta pratica di affiancamento e di ascolto, il fare arriva dopo. Questo permette di ascoltare anche il proprio tempo emotivo e anche la necessità che colgo nell’altro è quella che lo coinvolge.

Prossime repliche di Olympe?
Di sicuro saremo al Teatro Vittoria il 22 aprile 2024. Nel frattempo ci saranno 4 o 5 repliche già fissate in alcuni teatri in carcere, sicuramente a Siena dove siamo già state. E poi speriamo in una distribuzione dello spettacolo.


Per info e notizie sugli spettacoli:
infoledonnedelmuroalto@gmail.com

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