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Le donne Cofán: ecoturismo e tutela ambientale

Le donne Cofán: ecoturismo e tutela ambientale

Ecuador - Amazzonia Ecuadoriana, dalla maledizione dell’abbondanza a una nuova era ecologica?

Di Pietro Maria Elisa Domenica, 14/07/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2013

Il modello più riuscito di ecoturismo e tutela ambientale è il villaggio di Zabalo, nella Riserva Naturale Cuyabeno, gestito ufficialmente dal 2004 dai Cofán, uno dei gruppi indigeni sopravvissuti nella selva amazzonica dell’Ecuador nordorientale, dove ne restano meno di 2.000 in 10 comunità, più o meno trecento a Zabalo e pochi altri in Colombia. Un’estinzione impressionante: l’invasione spagnola ne aveva risparmiati almeno 150mila. Sono tra i nativi più colpiti delle attività petrolifere, ma come gli altri si considerano una nazionalità organizzata in federazione, che dagli anni Settanta ha reagito, rivendicato diritti alla terra e nel 1993 ha accusato la Chevron-Texaco di aver dolosamente danneggiato per un trentennio (1964-1992) oltre 2,5 milioni di ettari di foresta e fonti d’acqua, animali e persone per risparmiare sui costi. Gli attivisti Cofán vantano riconoscimenti internazionali e sono in prima linea tra le 30mila vittime rappresentate dal Fronte della Difesa dell’Amazzonia, promotore del giudizio. Nel 2002 hanno siglato un accordo col Ministero dell’Ambiente per cooperare nella tutela del patrimonio naturalistico più ricco di biodiversità al mondo, applicando conoscenze tramandate da migliaia di anni.

A pomeriggio inoltrato sbarchiamo nel piazzale deserto. Ecco una bambina! Al mio “¿Cómo te llamas?” risponde “Michelle”. Attacco con la melodia: “Michelle, ma belle. These are words that go together well”. Azzardo la traduzione spagnola e proseguo: “I will say the only words I know that you’ll understand”. Il ghiaccio è rotto, l’intesa miracolosa! È un motivo adatto: canta un amore non ostacolato da barriere linguistiche, quasi insuperabili se si tratta di un idioma indigeno arcaico, farcito di spagnolo. La chiquita mi conduce per mano verso due piscine artificiali e grida “Charapa!”. Coglie un fiore. Mi porge il bocciolo e con lo stelo indica le tartarughe che fanno capolino dall’acqua. Un cartello illustra il progetto di avviato nel 1989, con contestuale divieto di prelievo, per la ripopolazione di due specie autoctone allo scopo di studiare e recuperare questa risorsa alimentare e turistica. Bimbi e donne raccolgono le uova e curano le testuggini per rilasciarle nel fiume dopo il superamento del primo critico anno di vita. L’idea, ormai estesa a tutte le comunità Cofán, ha reinserito uova e carne nella dieta locale, nella produzione di cosmetici, sapone e creme per la pelle e nel biocommercio controllato.

Le attività ecologiche ed economiche dei Cofán comprendono coltivazione e impiego di piante medicinali, caccia, pesca e agricoltura di sussistenza per soddisfare le necessità quotidiane, costruzione di canoe ecofriendly, artigianato ecologico.

Un’anziana si avvicina. L’abito, stoffe diverse a tinte sgargianti, è la divisa imposta dai missionari in sostituzione del tradizionale costume adamitico guarnito di piume. Un cenno e il piazzale si riempie di ragazzine e donne che, in ordine rapido e perfetto, allestiscono una mostra su rudimentali stenditoi: monili confezionati con semi, gusci, piume, denti di animali e ali di farfalla. Ciascuno riporta un cartellino col nome di chi l’ha realizzato e prezzo in dollari americani, che dal 2000 hanno corso legale in Ecuador per contrastare la crisi economica. Per mia madre scelgo con decisione un bracciale confezionato da Carmela, si chiama come lei! Ne aggiungo altri firmati Luzmilla, Amelia e Anita. Le ringrazio una ad una, un delicato pretesto per saperne di più della loro condizione.

Una giovane sbircia alla finestra, ha un’eruzione cutanea sulla fronte. Il petrolio pareva una promessa di sviluppo, invece oggi lo chiamano “maledizione dell’abbondanza”. Infanzia e genere femminile sono più esposti e vulnerabili per ragioni fisiologiche, condizioni di vita e ruoli. Le donne, isolate in zone poco accessibili, disinformate e discriminate più dei maschi nei diritti alla salute, hanno notato per prime le conseguenze della contaminazione di acqua, aria e catena alimentare: aumento della mortalità infantile, malnutrizione, malformazioni, infezioni intestinali e urinarie, malattie cutanee, respiratorie, tubercolosi, epatite e cancro, con rischio di incidenza triplicato. È tuttora emergenza sanitaria: servizi scarsi e discontinui, negati a chi non può permetterseli, improvvisati da missionari e volontari con mezzi di fortuna, come abbiamo verificato in un mese di permanenza in comunità e stazioni ecologiche come Nuevo Rocafuerte.

Il progresso è lento. Dopo innumerevoli rinvii negli USA, nel 2009 la causa si è riaperta in Ecuador. Intanto la mortalità materna resta alta e far figli per gli indigeni non è una decisione difficile, accade appena la natura lo consenta. Michelle mi tira per il braccio per farmi conoscere un’amica orfana che consola il fratellino. Sullo sfondo casse, tubi, disordine e fango, qualche gallina e un recinto di pecari, allevati dall’unico uomo presente al momento nel villaggio con la tunica tradizionale e la corona di piume. Gli altri sono in città, reclutati come operai nelle aziende petrolifere, oppure impegnati come ranger in stazioni ecologiche e lungo il confine. Curano oltre 1 milione di ettari di foresta pluviale (5.060 kmq), un’area 60 volte più piccola dell’Italia, contro i 30mila kmq abitati in origine. Anche alle donne è riconosciuta la formazione professionale a questo ruolo, con compiti e autorità pari ai guardaparco statali. Inoltre svolgono collaborazioni con team scientifici, musei e santuari di piante medicinali, valorizzando conoscenze ecologiche che si vorrebbe dichiarare patrimonio dell’umanità.

Il tramonto tinge d’oro il Rio Aguarico. Le bambine ci seguono in canoa per i saluti e ne approfittano per l’ultimo tuffo. L’indomani a Lago Agrio sarà tutto diverso. Il quartier generale dei petroleros è invaso da coloni, commercianti di legname, trafficanti e migranti clandestini, abitato da nativi sfollati dalle loro terre: anonime costruzioni di legno e cemento con tetti in lamiera sostituiscono le maloca; l’alcol è preferito alla chicha; campi sportivi, asfalto, monocolture e motori rubano spazio a giardini botanici e agli orti abbandonati dagli ultimi sciamani.

Il 3 gennaio 2012 una svolta: la condanna della Chevron-Texaco al risarcimento per danno ambientale più alto della storia è stata confermata, anzi raddoppiata a 19 miliardi di dollari, perché i responsabili non hanno presentato le pubbliche scuse richieste dalla sentenza. Sarà davvero tutta un’altra storia? La Chevron segue la strategia negazionista: rifiuta di riconoscere l’autorità della decisione, esecutiva in tutti i paesi del mondo, e cerca di bloccarne gli effetti: invoca arbitrati, lancia accuse e ricorsi pretestuosi, campagne mediatiche infamanti, ma non è abbastanza tempestiva: in Argentina sono già stati confiscati beni di proprietà della compagnia. Per evitare l’estrazione del greggio rimasto e salvaguardare gli indigeni residenti, nel 2010 è stato istituito un fondo cogestito da Ecuador e Nazioni Unite: 3 miliardi e 600 milioni di dollari, metà del valore del petrolio stimato nel sottosuolo; persone fisiche, aziende e governi potranno acquistarne quote da riscuotere immediatamente qualora le attività estrattive riprendessero. A marzo 2013 la Fondazione per la Sopravvivenza dei Cofán ha vinto un premio internazionale di 500mila dollari, da destinare soprattutto a dialogo interculturale, l’istruzione dei giovani, insegnamento di inglese e spagnolo, empowerment e partecipazione femminile ai processi decisionali. Domani sarà un altro giorno? Michelle ci crede.



Foto di Maria Elisa Di Pietro

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