Le dispari parità di finanziamento ai centri antiviolenza
La probabile scelta governativa di privilegiare le Regioni, nella ripartizione dei finanziamenti previsti per i centri antiviolenza, rischia di compromettere l'entrata in vigore della Convenzione di Istanbul in Italia.
Indubbiamente si configura come un preludio negativo all’entrata in vigore della Convenzione di Istanbul, prevista per il prossimo 1° agosto, l'annunciata ripartizione dei fondi promananti dalla legge 119/2013, meglio conosciuta come legge contro il femminicidio. Erano, difatti, stati annunciati all’epoca 17 milioni di euro per azioni di contrasto alla violenza contro le donne ed a tal fine la viceministra Guerra, titolare della delega alle Pari opportunità, aveva predisposto sette gruppi tecnici di lavoro finalizzati anche alla congrua ed opportuna definizione delle linee guida, per il tramite delle quali sarebbe dovuto avvenire il riparto di tali fondi tra le strutture ed i centri eroganti assistenza alle vittime della violenza di genere, Senonchè la montagna ha partorito un topolino, ossia la suddivisione delle risorse finanziarie ha subito una forte impennata a favore degli enti territoriali pubblici ed a discapito delle associazioni private operanti nel settore. Ad esse sono stati assegnati gli spiccioli di uno specifico Fondo, che ha visto la parte più cospicua delle elargizioni statali andare alle Regioni. Eppure D.i.R.E., il cartello che raggruppa sessantasette centri antiviolenza e case delle donne, aveva a quei tavoli ben rappresentato le aspettative da soddisfare, al fine di consentire la salvaguardia dei presidi territoriali che si occupano di affiancare e sostenere le donne che subiscono violenza sessuata, nonché i loro figli. La stima governativa del fabbisogno dei centri antiviolenza privati è al di sopra dei tremila euro annui, destinati a loro dalla previsione odierna del finanziamento: 2.260.mila a quest’ultimi, 9 milioni alle Regioni per i progetti già in essere e 5 milioni di euro destinati alla nascita di nuove realtà eroganti assistenza.
Altre erano state le speranze riposte da D.i.R.E. in quei tavoli di concertazione, aspettative completamente disattese non solo dalla ripartizione dei fondi pubblici, ma anche dalla scelta prettamente politica di attribuirne la parte più consistente alle regioni. Eppure la Convenzione di Istanbul prevede all’art. 8 che i governi privilegino le azioni dei centri antiviolenza privati gestiti in modo tale da offrire servizi indipendenti. Un viatico peggiore di questo per l’entrata in vigore di siffatto accordo internazionale non si sarebbe potuto approntare, vista la “particolare” suddivisione delle risorse finanziarie previste dalle legge 119/2013. Piuttosto che definire criteri qualitativi di assistenza, tali da potere individuare i centri effettivamente idonei ad assicurarla, si è preferito fare la conta numerica dei centri già esistenti, dando così la giusta sprone a quanti abbiano l’intenzione di costituirne di nuovi, al sol fine di ricevere i finanziamenti provenienti dal Fondo nazionale. Difatti, molti sono i progetti già pronti per la loro nascita, facendo così perdere di vista il compito precipuo di riconoscere validità e, conseguentemente, meriti alle strutture che da oltre vent’anni hanno continuato ad erogare servizi alle vittime della violenza, nonostante oggettive difficoltà di sopravvivenza per la carenza strutturale di sovvenzioni pubbliche capaci di far fronte agli onerosi impegni economici di tali particolari strutture. L’elargizione del contributo di tremila euro per ognuno degli oltre trecento centri antiviolenza privati censiti è stata la poco dignitosa risposta alla domanda avanzata dalle associazioni con comprovata esperienza nel settore, con l’aggravante di computare e valutare allo stesso modo le istanze dei centri di prima accoglienza con quelle delle associazioni predisposte ad offrire assistenza continuativa e con le esigenze delle case rifugio.
Chissà quale sarebbe stato il risultato del confronto tra le realtà effettivamente di supporto alle donne abusate con le istituzioni regionali e statali, qualora a quei tavoli di concertazione fosse stata presente il/la titolare della delega alle Pari Opportunità. Ci sarebbe da dubitare che la ripartizione delle risorse finanziarie inserite nel Piano nazionale antiviolenza sarebbe stata operata in modo certamente non paritario, ove tale figura avesse assolto pienamente ai compiti correlati alle sue funzioni. E, dire, che sono mesi che le donne italiane, in primis, richiedono a viva voce la sua nomina, perché già con il governo Letta si era assistito alla scomparsa del dicastero ed all’attribuzione dello specifico ruolo alla viceministra del Lavoro Guerra. Il premier Renzi, invece, ha preferito tenere per sé la delega, visto che su di essa erano alte le aspettative del Nuovo Centro Destra, pronto ad utilizzare tale ministero come muro di gomma contro cui far rimbalzare le giuste istanze delle coppie di fatto e le richieste di tutela provenienti dalle rappresentanze dei vari orientamenti sessuali. Eppure i risultati delle elezioni europee, con il conseguente ridimensionamento della portata elettorale della componente centrista della coalizione, non dovrebbero più consentire alibi al primo ministro, ma, soprattutto, il semestre italiano di presidenza della UE dovrebbe imporre l’assolvimento dell’obbligo di nominare chi debba assolvere alle funzioni di ministro/a delle Pari Opportunità.
Se “l’Europa non può più essere quella delle banche, ma dei cittadini”, a maggior ragione deve essere l’Europa delle donne, principalmente se esse non sono suffragate nelle proprie legittime istanze dai singoli stati d’appartenenza, come quelle richieste promananti, ad esempio, dalla messa in pratica della Convenzione di Istanbul. Se così non sarà, se, ossia, il governo privilegerà la scelta di delegare l’individuazione dei soggetti fruitori dei finanziamenti sulla base di logiche meramente ragionieristiche o peggio ancora clientelari, se ne prenderà atto e ci si dovrà contrattrezzare con una puntuale e ferma protesta. Il confronto con le varie istituzioni pubbliche territoriali, già di per sé nato claudicante per l’assenza del ministro/a alla Pari Opportunità, ha finito per azzoppare non solo l’interlocuzione con associazioni quali D.i.R.E., ma la loro stessa dignità, preferendo finanziare in modo più rilevante centri antiviolenza che allo stato attuale neppure esistono. Quei 5 milioni destinati a quest’ultimi, contro i 2.260mila previsti per quelli operanti da decenni in questo delicato settore d’assistenza, la dicono lunga sulle opzioni prescelte. Dispari opportunità tra gli uni e gli altri, aggravate dalla mancanza di un ministro/a che di contro facesse valere almeno piani egualitari di riparto finanziario, è purtroppo l’orizzonte in cui si staglia il tramonto delle speranze di sopravvivenza dei centri con consolidata, comprovata ed effettiva assistenza a favore delle vittime della violenza di genere. Per non lasciarsi sopraffare dall’impotenza della rassegnazione D.i.R.E. ha annunciato una mobilitazione per il prossimo 10 luglio, in occasione della Conferenza Stato-Regioni, deputata a dare il via libero definitivo alla ripartizione dei fondi, al fine di far sentire la propria opposizione alla scelta di logiche “di parte”, che non consentirebbero di offrire “politiche e servizi di qualità per prevenire e contrastare il fenomeno della violenza sulle donne”.
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