Intervento di Rosa M. Amorevole – Consigliera di Parità per l’Emilia Romagna
Convegno “Vite, lavoro e non lavoro delle donne” organizzato dal SNOQ Bologna – Bologna 3 marzo 2012
Domenica, 25/03/2012 - La normativa italiana definisce le discriminazioni di genere dirette ed indirette.
“qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”
“qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”
Sancisce il divieto di discriminare in ogni campo del lavoro: la lavoratrice, il lavoratore dovranno essere posti in grado di esercitare la loro prestazione lavorativa in condizioni di parità e pari opportunità.
Tale quadro normativo (ben più ampio di quanto sopra citato) incrocia un mercato del lavoro completamente cambiato rispetto al passato, nel quale alla tradizionale fatica di affermare parità e pari opportunità per le donne in ambito lavorativo si aggiunge la costatazione che l’esercizio di alcuni diritti – quali ad esempio quelli legati al tema della maternità - non possano essere ugualmente esercitati in contesti contrattuali diversi.
Essere dipendenti a tempo indeterminato, o a tempo determinato, o essere lavoratrice con contratto di collaborazione a progetto o a partita IVA, essere professionista, … crea diverse condizioni di accesso agli stessi diritti.
O se, pur con contratto a tempo indeterminato, si è dovuto sottoscrivere le proprie preventive dimissioni in bianco. Situazione questa di cui si sta parlando molto, che sappiamo esistere ma per la quale non esistono rilevazioni formali ma solo stime approssimative. Eppure inquietanti. Fenomeno per contrastare il quale credo sia importante avere al più presto una legge.
La crisi sembra aver aggravato i problemi strutturali relativi all’occupazione femminile, soprattutto in relazione al tema della “qualità del lavoro”. Infatti sono aumentati i fenomeni di segregazione verticale ed orizzontale, sono aumentati gli impieghi non standard, sono cresciuti i problemi di conciliazione tra lavoro e vita (al contempo l’offerta dei servizi cura si è contratta e/o ha innalzato i suoi costi, o semplicemente gli orari riescono sempre meno a rispondere a fabbisogni originati da ampie articolazioni dell’orario di lavoro sulla giornata), si è acutizzato il sottoutilizzo del capitale umano.
E’ calata l’occupazione femminile qualificata e contemporaneamente è aumentata quella non qualificata, è in aumento il part time involontario (in mancanza di contratti a tempo pieno o in settori con orari poco adatti alla conciliazione), aumenta il divario di genere a causa del sottoutilizzo del capitale umano (che a livello italiano ha raggiunto il 40% per le laureate, contro il 31% dei colleghi maschi). Più donne che uomini svolgono un lavoro temporaneo, ma meno dell’anno precedente, perché i primi ad essere tagliati sono stati i contratti di collaborazione. Tipologie contrattuali queste, che sempre di più sono presenti in età giovanile: in Emilia Romagna, ad esempio, il 68,3% delle donne e il 53,8% degli uomini si colloca nella fascia di età 25-44 anni.
In un clima di incertezza, come quello attuale, trovano terreno fertile le discriminazioni. La paura di perdere il posto di lavoro porta spesso ad innalzare la soglia di sopportazione rispetto a quanto accade nel contesto organizzativo.
Le discriminazioni che maggiormente vengono portate all’attenzione delle Consigliere di parità sono prevalentemente legate a:
- maternità e cure parentali (resistenza a forme di flessibilità conciliative), conciliazione tempi di vita e di lavoro;
- riconoscimento delle competenze, avanzamento di carriera (che in un contesto di maggiore preparazione scolastica e formativa delle donne, crea frustrazione… Ad es. i dati di Almamater raccontano che dopo 1 anno/5 anni le neo laureate risultano meno occupate e meno pagate dei colleghi maschi, pur in presenza di migliori risultati scolastici ed anche in presenza di esperienze professionali);
- stereotipi/vincoli di genere nell’accesso e/o nell’avanzamento di carriera (che si concretizzano in bandi di concorso/selezione, regolamenti, ecc. che introducono clausole discriminatorie nei confronti del genere femminile)
- molestie, molestie verbali e sessuali, mobbing (indicatore di un clima profondamente cambiato).
Questi fattori producono una ulteriore discriminazione: la disparità salariale. In Emilia Romagna, ad esempio:
- nel caso di lavoro non standard, il 56% delle donne non supera i 10mila euro di reddito (39% i maschi). Considerando il reddito medio per classi di età emerge che lo scarto di genere, pur sempre presente, si accentua a partire dalla classe di età 30-39 anni, inoltre, al crescere dell’età mentre il reddito maschile aumenta arrivando ad oltre 39mila euro per i 50-59 anni, fra le donne si mantiene stabile poco sopra i 20mila euro;
- mediamente nel lavoro dipendente le donne percepiscono il 21% in meno di salario (ovviamente queste differenze variano anche in funzione delle età, dell'inquadramento, ecc.)
- nel lavoro professionale la rilevazione attraverso le casse previdenziali degli ordini ha messo in evidenza un differenziale reddituale tra il 40 e il 60%
Per le donne giovani, il tema della maternità è spesso un forte deterrente all’assunzione, ed al contempo, se ricadono nella fascia centrale di età, faticano maggiormente a ricollocarsi in caso di licenziamento. (con i conseguenti problemi – non solo economici - relativamente all’innalzamento età pensionabile: sono reali le difficoltà ricollocazione delle over 45)
Il timore di perdere il posto di lavoro, porta molte donne ad accettare anche condizioni limite.
Tra i suggerimenti che potrebbero essere portati all’attenzione della discussione, mi sento di elencare:
- la definizione di una legge per contrastare le dimissioni in bianco, elemento di civiltà;
- Il miglioramento delle condizioni di accesso a diritti fondamentali come quelli legati alla maternità, alla paternità, alla cura per ogni forma di contratto;
- Il rafforzamento dei presidi antidiscriminatori: diventa difficile contrastare il fenomeno della discriminazione senza forze e risorse in campo e con una valutazione dei risultati delle azioni;
- La penalizzazione delle organizzazioni pubbliche e private che discriminano (mancato accesso a finanziamenti, esclusione dagli appalti, ecc…). Sarebbe importante partire dalle pubbliche amministrazioni, per dare il buon esempio;
- l’incentivazione delle aziende che realizzano buone prassi in raccordo con il territorio sul versante della conciliazione, promozione parità e pari opportunità attraverso l’individuazioni di indicatori. E’ sempre più importante che la creazione di servizi per la conciliazione non sia vista soltanto come soluzione endogena ad un fabbisogno interno. Sono estremamente importanti tutte quelle sperimentazioni che, a partire da fabbisogni interni, costruiscono in raccordo con il territorio nuovi servizi di prossimità sinergici al sistema dei servizi esistenti;
- promozione della conoscenza del fenomeno discriminatorio: la discriminazione non è un fatto individuale, è qualcosa che colpisce tutte le donne.
Per finire, anche a rischio di sembrar banale, maggiore presenza delle donne negli organismi decisionali: nei consigli di amministrazione (a partire dalle partecipate pubbliche) e negli organismi direzionali. Del resto le esperienze estere ed italiane ci indicano che, a fronte di una maggiore presenza di donne, le condizioni del lavoro potrebbero migliorare.
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