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Le conseguenze

Le conseguenze

Il femminicidio e lo sguardo di chi resta. Inaugurata la mostra fotografica di Stefania Prandi a Ravenna

Lunedi, 21/02/2022 - Per Elisa.
La mostra fotografica inaugurata domenica 20 febbraio presso Palazzo Rasponi a Ravenna è dedicata ad Elisa Bravi, giovane donna di Glorie di Bagnacavallo uccisa da suo marito nel dicembre 2019.

“Le conseguenze”: il titolo parla chiaro. Mostrare le conseguenze del femminicidio spiega che questo non è solo un momento. È un evento che diventa quotidianità. Quotidianità per chi rimane. Il femminicidio non è solo un momento: c’è sempre un prima, un percorso di violenza, che non viene vista o che purtroppo è impossibile vedere.
Stefania Prandi – giornalista, fotografa e scrittrice – ha raccontato attraverso le sue fotografie le persone che restano, anche se fotografare ciò che resta non è facile, perché ciò che resta rimane per lo più dentro le persone: figli e figlie, madri, padri, fratelli, sorelle. “Vittime collaterali”. Famiglie distrutte da un terremoto che inghiotte in un attimo la vita così come è stata vissuta fino a quel momento. Tuona una domanda in sala: “Perché abbiamo avuto un papà che ha ucciso la mamma?”
Le fotografie non raccontano solo il dolore privato di queste famiglie, ma danno la dimensione delle conseguenze che il femminicidio produce e che vanno oltre la singola donne uccisa. Il femminicidio è una bomba atomica. Che può accadere a tutte, dobbiamo convincerci di questo: può accadere a tutte. Il patriarcato è qualcosa che tutte noi sperimentiamo nella nostra vita di donne – chiarisce l’avvocata Cristina Magnani -, anche quando non ce ne rendiamo conto.
La mostra fotografica diventa così un veicolo di informazione capace di arrivare anche a persone che non leggerebbero un libro su questo tema. “Questi argomenti non mi interessano”, dicono in molti, soprattutto uomini. Ma anche donne. “Non leggo questo genere di libri” mi sento dire. Questa tematica non è gradita.

Ma chi resta – soprattutto le madri – cercano in ogni modo di non far dimenticare la propria amata, lottando perché quella morte non sia inutile, perché si trasformi in denuncia che induca ad una reazione di indignazione e rifiuto tale da fare in modo che ciò non accada più.
È quello che certamente ha fatto Giovanna Ferrari: ha trasformato il proprio dolore di madre - che c’è e che rimarrà sempre - in attivismo politico femminista, portando la voce di sua figlia Giulia nelle città e nelle scuole, per cambiare il futuro spiegando il presente.
“Non mi riguarda” dicono in tanti. Ma poi ti capita, dice Giovanna, ci sbatti il naso contro e allora devi imparare in fretta. Impari in fretta che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui lo Stato affronta il femminicidio. Perché il femminicidio non è un momento: anche “il dopo” è importante. Un dopo che innanzitutto è il processo penale, dove il diritto di difesa dell’imputato si trasforma in diritto all’offesa.
“Per non dargliela vinta” (Ed. Il Ciliegio, 2012) è il titolo del libro scritto da Giovanna Ferrari sull’onda del dolore e della rabbia scaturiti dal processo penale all’assassino di sua figlia. Sembra un titolo di battaglia, dice Giovanna, di battaglia contro l’assassino. Invece “per non dargliela vinta” è il motivo dichiarato dall’assassino per aver attirato sua moglie nel luogo in cui aveva progettato di ucciderla. Avere l’ultima parola, esprimere il proprio potere primario rispetto alla donna: questo è il motivo per cui gli uomini CI uccidono.
Perché un uomo non può ammettere di perdere davanti ad una donna? Perché la società gli ha insegnato che essere uomo, essere un uomo degno di rispetto degli altri uomini, significa dominare, prevalere, vincere. Ed è allora qui che bisogna agire: sradicando quanto ci è stato insegnato – a uomini e donne – come naturale e giusto.
Sarebbe bellissimo chiudere i centri antiviolenza – dice Alessandra Bagnara, presidente di Linea Rosa -, poterli chiudere perché non c’è n’è più bisogno!

Dopo le parole di una madre si levano in sala anche quelle di un fratello: Livio Cancelliere, fratello di Stefania, che nella sua qualità di avvocato racconta l’estenuante e disgustoso percorso giudiziario che è seguito al femminicidio di Stefania, e spiega in che modo viene calcolato nel nostro strano Paese il valore di una donna: nel suo caso 17 anni di carcere. 17 anni per 80 colpi di mattarello. Un mattarello che si è spezzato per quanti colpi ha dato.
“Noi parenti siamo condannati all’ergastolo del dolore” sentenzia Livio. La madre di Stefania ha riempito la casa di sue fotografie, forse nel timore che le sfuggisse il suo ricordo o anche solo il suono della sua voce. E si è tatuata il nome e il volto di Stefania: perché sia sempre con lei, dentro di lei, nel suo corpo, perché non ci sia nulla che le divide.

E allora qual è la soluzione?
PARLARE.
PARLARE per raccontare cos’è in realtà il femminicidio.
PARLARE per raccontare che la colpa è solo di chi uccide, di chi agisce violenza.
PARLARE per spiegare che per capire il femminicidio è necessaria una formazione specifica, non è sufficiente il buon senso comune. Che non è affatto buono.
PARLARE per dare voce alle donne che non l’hanno più.
PARLARE per garantire libertà di parola alle bambine che diventeranno donne domani.
PARLARE per spingere altri a parlarne. Perché tutti dovrebbero parlarne – mi disse Giuliano Galiotto, il padre di Giulia, quando lo incontrai – tutti dovrebbe parlarne, soprattutto gli uomini (https://www.noidonne.org/articoli/quello-che-resta-17020.php).

Spesso mi viene detto “Va bene, è una questione importante, però, Maria, scrivi anche di qualcos’altro, cambia argomento”.
La mia risposta è: quanto smetterete di ucciderci, io cambierò argomento.


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La mostra di Stefania Prandi sarà visitabile fino al 27 febbraio. Dopo Ravenna si sposterà a Palazzo Vecchio di Bagnacavallo dall’1 al 6 marzo.
Sul libro “Le conseguenze” di Stefania Prandi avevo scritto qui: https://www.noidonne.org/articoli/le-conseguenze-i-femminicidi-e-lo-sguardo-di-chi-resta-17296.php

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