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Le barbie della miseria

Le barbie della miseria

Cina - Senza diritti e senza tutele sanitarie le operaie delle fabbriche cinesi che producono giocattoli per le multinazionali

Antonelli Barbara Domenica, 17/03/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2013

Salari da fame, orari di lavoro estenuanti, esposizione a materiali tossici. Sono almeno 10 anni che inchieste, reportage giornalistici e rapporti redatti dalle ONG in difesa dei diritti umani mettono in luce le terribili condizioni di lavoro degli operai e soprattutto delle operaie nelle aziende che producono giochi e giocattoli in Cina. L’80% dei giochi che affollano i negozi del mondo sono proprio fabbricati in Cina, con manodopera sottopagata, prevalentemente giovani donne provenienti dalle aree rurali emigrate nelle zone industriali per sostenere finanziariamente le famiglie d’origine. La linea di produzione impone loro ritmi e numeri feroci: 2 giochi Fisher-Price al minuto per rispettare la quota di produzione imposta. Fate voi il calcolo: due giochi al minuto per circa 11 ore al giorno significa dai 1.200 ai 1.500 pezzi al giorno, 6 giorni su 7. Per un salario mensile che varia tra i 250 e i 375 euro mensili (cioè tra i 2.000 e 3.000 yuan), incluse le ore supplementari che nei mesi di cosiddetta alta stagione - cioè da giugno a settembre, in vista del mercato natalizio - variano tra le 100 e le 120 ore settimanali. Le operaie denunciano da tempo non solo le condizioni di lavoro ma anche i rischi sanitari a cui sono esposte: nessuna protezione, nemmeno una mascherina contro coloranti, plastiche e prodotti potenzialmente tossici. Sul banco degli accusati la Mattel, leader mondiale nella creazione e vendita di giocattoli, che commercializza i ben noti marchi di Fisher-Price, Uno, Scrabble e la famosissima Barbie. Profitti per oltre 760 milioni di dollari e un rapporto annuale in cui - nonostante le numerose accuse da parte delle ONG in difesa dei diritti umani negli ultimi 10 anni - dichiara di trattare i propri dipendenti “in modo responsabile ed etico”. Dal 1999 al 2009 l’ONG China Labor Watch ha effettuato diverse inchieste in merito al trattamento degli operai da parte della Mattel; ma nemmeno dopo che nel maggio del 2011 l’operaia Nianzhen Hu, della fabbrica Study Products, sub-contraente di Mattel, si suicidò gettandosi dal sesto piano della fabbrica e che si scoprì che nella fabbrica erano impiegati anche minori, la Mattel ha mai cambiato - o migliorato - le sue politiche. Anzi. Dal 2001 al 2009, le verifiche sulle condizioni dei lavoratori erano in mano ad un organo indipendente, la ONG “Sethi International Center for Corpotrate Accountability” (SICCA) che entrava nelle fabbriche annualmente, redigendo dettagliate raccomandazioni per i dirigenti Mattel; ma nel 2009 la multinazionale ha concluso il suo partenariato con SICCA, adottando il sistema di certificazione della Federazione Internazionale, l’ICTI Care Process (ICP), i cui audit si sono però rivelati inefficaci al fine del reale miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Infatti il processo di verifica e certificazione proposto dalla Federazione internazionale dell’industria del giocattolo è criticato da ONG e associazioni della società civile, in primo luogo perché non impone nemmeno il rispetto della legge cinese. Alle porte dello scorso Natale, da ottobre a novembre 2012, le ONG China Labor Watch e Peuples Solidaires (in collaborazione con la ONG internazionale ActionAid) hanno preso in esame 4 fabbriche - intervistandone le operaie - nella provincia di Gangdong, di cui la prima produttrice esclusiva per Mattel, mentre le altre tre anche per altri marchi come Disney e Hasbro (Nanhai Mattel, Winty Industries, Dong Yao Toys et Wei Lee Fung Plastic Product.). La lista delle violazioni a danno delle lavoratrici è ancora una volta interminabile. A Nahai Mattel, le operaie non sono autorizzate a lasciare il posto di lavoro nemmeno dopo le 8 ore regolamentari, e vengono automaticamente costrette ad accettare un orario di lavoro straordinario, la cui remunerazione è talmente bassa che viola anche le leggi cinesi. In tutte le fabbriche esaminate, oltre alle violazioni già elencate sopra, le operaie non hanno nessuna protezione (né mascherina né guanti), anche quando sono in contatto con agenti tossici, non ricevono alcun training di formazione, né per l’addestramento al lavoro né in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro: nelle due aziende di Winty e Dong Yao, tutte le operaie intervistate hanno dichiarato di non essere mai state sottoposte ad alcuna visita medica. Sempre in queste fabbriche, l’iter delle dimissioni diventa talmente lungo (può richiedere anche due mesi) o può essere così difficile (lettere di dimissioni rifiutate) che le operaie decidono spesso di lasciare il posto di lavoro rinunciando a due mesi di busta paga. Infine tutte e quattro le fabbriche prese in esame si trovano in grandi centri urbani, costringendo le operaie ad una vita fatta di stenti perché di fatto sottopagate rispetto al costo della vita, costrette a dormire in luoghi non sicuri, malsani, in camerate da 12 letti, anche condivisi tra chi fa il turno di giorno e chi di notte. 

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