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Lavoro: vietato l'accesso alle donne?

Lavoro: vietato l'accesso alle donne?

Sondaggio di ottobre - Non bastano le leggi, ci vuole un cambiamento culturale

Rosa M. Amorevole Lunedi, 08/11/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2010

“Non bastano le leggi, ci vuole un cambiamento culturale”. Per il 50% delle risposte questo è il problema, e questo va affrontato. Il 43% si attesta sulla considerazione che le “donne siano ancora discriminate” mentre il 7% afferma che “le leggi per tutelare il lavoro delle donne ci siano” ma che non vengano applicate.

Le discriminazioni nel lavoro non sembrano affatto superate: maternità, differenziali salariali, evoluzione della carriera, ambiti nei quali si misurano le discriminazioni.

Lo aveva bene illustrato il “Gender brief” pubblicato dall’OCSE nel marzo scorso: in Italia il tasso di occupazione in relazione al numero e all’età dei figli crolla in maniera proporzionale all’aumentare del nucleo familiare, ma ancor peggio non aumenta di nuovo in relazione all’età dei figli. La maternità spesso rappresenta una vera e propria strada senza ritorno per uscire dal mercato del lavoro. Così è nel nostro paese, mentre nei paesi nordici e non solo (anche in Messico, Giappone e Turchia) lo “svantaggio” viene recuperato dopo i 5 anni del/della bambino/a. Anche Isfol nel 2009 aveva rilevato che con la maternità il 27,1% delle lavoratrici abbandona il lavoro e Banca d’Italia confermava che i 2/3 di queste erano costrette a farlo per problemi di conciliazione (meno nel settore pubblico, il 25%; molto di più tra le operaie, il 37,6%). Tra le dirigenti, secondo un’indagine di Manageritalia, la nascita di un figlio “rende più difficile il lavoro ed arresta la carriera”.

Maternità che può essere anche un potenziale deterrente all’entrata nel mercato del lavoro (“prima di assumermi mi hanno domandato se avevo intenzione di avere bambini”), o potenziale movente per non “rinnovarmi il contratto a termine”.



Forse dei differenziali salariali è minore la consapevolezza, e sono le ricerche a metterli in evidenza. Ma la difficoltà nella crescita professionale è ben rilevata da chi, nel confronto all’interno dell’organizzazione, vede negate capacità e competenze: “ho chiesto di cambiare lavoro al dirigente, ma mi ha risposto che c’erano già due uomini... io faccio ancora la segretaria, pare che non possa fare altro!”; “ho visto laureate ed oltre fare le commesse, ma ho visto semi-analfabeti dirigere uffici. La politica come le imprese non cercano ‘competenze’ ma ‘ ossequianti’. La meritocrazia è categoria esclusa dall’italico panorama”. E talvolta, alle solite difficoltà, si aggiungono anche le molestie: “mi sono dovuta difendere dai tentativi del mio capo”.



Storie di flessibilità e part time non concessi, di dispetti al limite del ridicolo (“quando il mio datore di lavoro ha saputo che ero incinta, e che sarei dovuta rimanere a casa, tutti i mesi mi consegnava lo stipendio in uno scatolone: settecento euro in monetine da 1 centesimo!”).



Le buone leggi da sole non sono dunque sufficienti. A queste si debbono accompagnare gli impegni delle imprese per valorizzare forme di lavoro flessibile e conciliante, attenzione alla diversità. Teorie organizzative che nel mondo già da alcuni anni vengono sperimentate e che dimostrano come il lavoro delle donne sia una risorsa importante, non più costosa di altre, sicuramente in grado di sviluppare produttività e benessere dentro e fuori il posto di lavoro.

Qualità che le consumatrici ed i consumatori sapranno sicuramente riconoscere anche al prodotto/servizio al momento dell’acquisto.





(8 novembre 2010)

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