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Lavoro low cost

Lavoro low cost

Editoriale di febbraio 2012 - Del lavoro, che si parli di retribuzioni o di organizzazione, non possiamo accettare versioni low cost

Bartolini Tiziana Lunedi, 06/02/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2012

La soglia dei cinque euro l’ora è un’unità di misura, teorica, che abbiamo fissato ipotizzando uno stipendio medio di (circa) mille euro al mese per un impiego svolto in giornate lavorative di (circa) otto ore. Per come si presenta, oggi, il mercato del lavoro, sappiamo che le variabili rispetto a una situazione tipo sono talmente tante da aver determinato un capovolgimento per cui la regola è l’eccezione e tutte le altre possibili condizioni sono diventate regola in sé. Non basta ancora: si chiede più flessibilità perché, ci dicono, il mondo del lavoro è diviso tra chi è, oppure non è, garantito. Ma anche questo comincia a non essere più così vero, considerato che la morìa di posti di lavoro ‘garantiti’ è endemica e attraversa tutti i settori. Nella maggior parte dei casi, chi è licenziata/o un nuovo posto non lo ritrova affatto e, se è fortunata/o, deve accontentarsi di qualche lavoretto malpagato e spesso in nero. La disperazione di centinaia di migliaia di persone è sempre più pressante, ma la sensazione diffusa è di una sostanziale impotenza di fronte ad una crisi economica e sistemica di cui non si vede la fine. E i cui contorni sono sfumati in ragione della trasversalità, della proporzione e dell’estensione. La dimensione planetaria di tale sconquasso è destabilizzante anche perché evidenzia brutalmente l’inadeguatezza degli strumenti a disposizione per farvi fronte e persino per comprenderne le varie implicazioni. Abbiamo a che fare con un immateriale mostro multiforme i cui colpi si ripercuotono sulla concretezza delle nostre vite, togliendoci soldi e sicurezze. Incolpare un capitalismo miope e mercati finanziari arroganti e impuniti non ci fa avanzare e opporre resistenza per parare i colpi o limitare i danni è indispensabile, ma non basta. Occorre immaginare prospettive di un futuro sostenibile, o che possa essere almeno tollerabile. A partire da una nuova organizzazione del lavoro, che non può essere costruita ignorando i diritti minimi e la dignità delle persone. In questo l’Unione europea è una base di partenza, a patto che Bruxelles e Strasburgo si facciano garanti delle democrazie e della qualità della vita, che scelgano di difendere le moltitudini e non le oligarchie, che abbiano come faro di riferimento le persone e non le banche. A patto che a decidere non siano i burocrati ma gli eletti e le elette, che a guidare le scelte non siano teorie astratte ma le possibilità di attuazione. Con l’interessante studio di Maria Grazia Rossilli, di cui pubblichiamo un estratto in questo numero - il testo integrale è in www.noidonne.org* -, intendiamo dare un contributo nell’acquisizione delle conoscenze indispensabili per comprendere i termini della questione. Precarietà, sicurezza, flessibilità, garanzie sono parole prive di senso, se usate a caso o senza cognizione. Restituendo valore alle parole possiamo restituire anche valore al loro significato. Quindi del lavoro, che si parli di retribuzioni o di organizzazione, non possiamo accettare versioni low cost, nell’accezione consumistica di basso prezzo. Soprattutto se a determinare tali condizioni hanno contribuito disposizioni europee che i vari Paesi hanno poi messo in atto. Le norme tracciate dall’UE hanno tenuto conto dei numeri, dei volumi e delle percentuali, ma è evidente il fallimento della quantità come parametro unico. Forse è arrivato il momento di cambiare il punto di vista e di considerare, del lavoro, una dimensione qualitativa che comprenda anche l’impatto su persone e ambiente. Un umanesimo del lavoro, insomma, che metta al centro le persone e non i profitti, che veda nell’equilibrio e nel ben essere l’obiettivo e il senso del lavoro stesso.

Tiziana Bartolini



* http://www.noidonne.org/files/allegati/Lavoro_Donne_Europa_Rossilli.pdf

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