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L’usufrutto come tutela per le vedove

L’usufrutto come tutela per le vedove

Diritto al femminile - Nell’antica Roma il pater familias aveva potere di vita e di morte sui suoi sottoposti, donne comprese

Bertolini Tatiana Venerdi, 23/12/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2012

Giuridicamente parlando le donne non sono mai esistite. Né come soggetti titolari di diritti né, spesso, come destinatarie delle norme stesse.

L’unica istituzione giuridico-sociale loro desinata era il matrimonio, ma anche all’interno della famiglia erano dei veri e propri oggetti che passavano dalla manus del pater a quella del marito, nuovo pater familias, cui dovevano cieca obbedienza e fedeltà.

Questo non solo nell’antica Roma, dove il pater familias aveva potere di vita e di morte sui suoi sottoposti, ma anche nelle epoche successive.

Questa situazione ha fatto sì che le donne avessero una posizione non sempre definita dall’istituto delle successioni, fossero figlie o vedove.

Per queste ultime la questione divenne ad un certo punto piuttosto spinosa.

Con l’ampliarsi dei domini di Roma in Italia a poi nel Mediterraneo, e con la venuta in contatto con altre popolazioni che a loro volta avevano altre leggi, si pose il problema dell’applicazione dello jus civile, che come dice il termine si riferiva ai cives ovvero ai soli abitanti della città di Roma. Per coloro che risiedevano immediatamente fuori di essa ma ancora nell’Italia centrale si applicava lo jus gentium (il diritto delle genti), al di fuori della penisola lo jus peregrinum (il diritto degli stranieri).

In questo intrico legislativo le donne che non si sposavano sotto lo jus civile non erano soggette alla manus del pater familias, questo mutamento però investirà successivamente tutto il modo romano e a seguito di ciò, alla morte del coniuge, la vedova rischiava di essere esclusa definitivamente da ogni possibile eredità e quindi, non essendo titolare di alcun altro diritto, vedeva seriamente compromessa la sua stessa sopravvivenza.

Il pater familias provvide così ad un certo punto a lasciare nel proprio testamento un lascito che, non intaccando la sostanza dell’eredità, avrebbe concesso ugualmente alla vedova di che sostentarsi. Secondo il Senato, che in seguito codificò quest’usanza in norma dandole il titolo di “usufrutto”, il bene doveva essere inconsumabile, ovvero inesauribile, tali erano, infatti, i prodotti dei campi, in quanto lo scopo primo di questa istituzione era di tipo alimentare. Ma poiché anche le norme si evolvono nel tempo, in seguito nei lasciti testamentari troviamo anche beni soggetti ad usura o consumo.

Esso viene definito un diritto reale in quanto ha per oggetto appunto un bene, una cosa concreta (res in latino) e non un diritto astratto. Tra questi beni possiamo successivamente trovare anche gli schiavi, considerati a quei tempi alla stregua di oggetti parlanti. A tal proposito Cicerone sollevò la questione se i figli di un’ancella potessero essere considerati alla stregua di frutti, quindi di proprietà dell’usufruttuaria della stessa.

Momento importante per questo era la “perceptio” che permetteva all’usufruttuario di fare propri i frutti al momento in cui il suo diritto era sorto, anche se erano stati coltivati da un altro.

La durata di questo istituto era illimitata e si estingueva con la morte del titolare.

Anche se in origine questa norma giuridica era riservata, come spesso succedeva, ai soli cittadini romani, nel corso dei secoli venne applicata a tutti e in seguito il diritto venne riconosciuto anche ad alti soggetti oltre le vedove.

L’esame della storia dell’usufrutto può portare a due tipi di riflessioni. Da una parte l’evoluzione costante del diritto, che si arricchisce ulteriormente quando entra in contatto con realtà sociali e giuridiche differenti, e dall’altra l’osservazione che i diritti pensati per tutelare le donne producono poi effetti positivi anche sul resto dell’intera società.







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