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Laura Corraducci  / La frontiera della parola

Laura Corraducci / La frontiera della parola

Poesia / Laura Corraducci - Un continuo interrogare lo spirito per aprire squarci sulla superficie liscia del quotidiano

Benassi Luca Domenica, 07/07/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2013

Laura Corraducci è stata una scoperta. Mi manda un’e-mail, firmandosi Laura Corra, chiedendo se può inviare alcune poesie. Cerco di informarmi, di Laura Corra ce ne sono varie su internet, ma nessuna che abbia a che fare con la poesia. Questa sconosciuta mi manda i testi ed è come mettere le mani in uno scrigno di cristalli e pietre dure, una ventina di poesie brucianti, affilate come scheggia, senza punteggiatura, né maiuscole, versi che scorrono davanti agli occhi come aghi che bucano l’innocenza dei sogni, delle sere, degli oggetti, del cuore, delle preghiere. Scopro che si tratta di Laura Corraducci, una bravissima poetessa di Pesaro, affatto sconosciuta, che ha pubblicato nel 2007 la raccolta poetica “Lux Renova”, per le Edizioni del Leone, un’esile ma intensa plaquette di 30 poesie, nelle quali l’autrice si mette in relazione con un Dio nascosto, dimenticato, eppure continuamente presente nelle paure, nei desideri e nelle relazioni fra gli esseri umani, nella singolarità degli eventi del quotidiano. Scrive Renato Fiorito in merito alla poesia di Corraducci: “nella sua ricerca nelle pieghe dell’anima, la quotidianità si colora di significati introspettivi, assumendo spesso un’inaspettata centralità. I suoi versi, di grande maturità stilistica, riescono a collegare in modo ardito i temi della religiosità, della ricerca della verità e del suo contraddittorio manifestarsi, allo scorrere banale delle giornate, ai viaggi quotidiani in treni affollati, alle inutili attese, alle insofferenze del cuore, al desiderio d’altro, ai piccoli dolori.” Effettivamente, anche fra i testi inediti, si scorge il segno di una religiosità inquieta, un continuo interrogare lo spirito per aprire squarci sulla superficie lisca del quotidiano; si tratta di ferite che si aprono per osservare ed osservarsi, comprendere se stessi e l’amore, a metà strada fra la solitudine del deserto e lo scorrere comune e affollato dei giorni. Attraverso queste porte di parole, la poetessa ci guida in una quotidianità nella quale gli elementi primi - il vento, la sera, il sonno, la notte, una giornata di pioggia, l’attesa dell’amore - si caricano di senso fino ad una catarsi drammatica, che ricorda la solennità dolorosa di una tragedia di Shakespeare. Questa densità di scrittura, tuttavia, è sapientemente alleggerita da una fluidità di linguaggio che evita l’aggettivazione eccessiva, i costrutti complessi, per affidarsi agli ossimori, alle sinestesie, alla musica di versi dispari, asciutti e pungenti.













l’agenda aperta a giovedì diciotto

scordi di omaggiare con vitelli grassi

il dio stanco del tuo tempo padrona

e schiava del dolore che sopprime

ti addormenti ancora in fertile resa

le nocche premute a morte sulle paure

resto sola nell’attesa

di scioglierti con cura

i nodi grigi del silenzio









il vento che tu senti non è il volo

del gabbiano ritto sullo scoglio

è vapore di vita che si innalza

sugli alberi in fila come uccelli

si posa sulla pelle delle cose

rubando il colore dai contorni

si mischia al fiato della terra

melodia di oggetti da frontiera

questi i giorni di un amore sincopato

dove gli scontrini raccontano ritratti

di parole tirate in aria come sassi









tre centimetri di pelle ti ho cucito

alla vita come fossi una cintura

i punti fissati diritti sulle anche

tre croci sul tuo Golgota di carne

venga il vento

a slegarmi dai tuoi fianchi

venga il fuoco

a bruciarmi dentro un tuono

farfalla sciolta in polvere sul muro

alla morte oggi ruberò le cicatrici









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