A Roma con l’Anteprima del XVI Congresso (30 gennaio 2016) una giornata per riflettere sul presente, le donne, il femminismo. E le sfide epocali in atto
Mercoledi, 10/02/2016 - Biopolitica, neoliberismo, globalizzazione, precarizzazione, povertà, consumismo, crisi della politica, terrorismo, guerre, migrazioni di massa. Sono le parole che hanno attraversato l’Anteprima del XVI congresso Udi, previsto a maggio. Una giornata seminariale nazionale aperta ai contributi e alle riflessioni che tante donne – anche esterne all’Udi – sono state invitate a portare. “Noi, sguardi di donne sul presente” era il titolo dell’incontro, tenuto a Roma il 30 gennaio 2016 nella sede nazionale, che era anche la sollecitazione a proporre delle riflessioni, a partire dalla propria pratica ed esperienza, sul “contesto in cui donne e uomini si trovano oggi a vivere.
“Il tempo della globalizzazione è il tempo di violenza che non si limita a uccidere ma che penetra e uccide corpo e anime (A.Appadurai)” ha osservato Vittoria Tola introducendo i lavori e ponendo la domanda se il femminismo possiede gli strumenti concettuali necessari a comprendere cosa sta avvenendo storicamente. L’Anteprima nasce da un percorso cominciato da un anno difficilissimo ma costellato dai seminari “femminicidio” a “lasciateci lavorare” e le iniziative sul 70esimo della nascita dell’Udi, volte a ricostruire con maggiore verità il ruolo delle donne nella resistenza e che quest’anno riguarda il diritto di voto. Seminari che hanno affrontato molte problemi aperti e per cui le donne dell’Udi si sono rese conto che tutto era collegato a una serie di processi di livello mondiale che si ripercuotevano anche nella nostra vita quotidiana e sulle nostre preoccupazioni rispetto a un potere lontano o assente. Una situazione che ha come sfondo, ma è in realtà in connessione, con guerra e terrorismo fondamentalista e totalitario da cui si produce la cosiddetta emergenza sull’immigrazione che sembra solo violazione di confini di Schenghen da parte di clandestini. Contesto, su cui sono tornate in molte nel dibattito, in cui altri si ergono a difensori delle donne per giustificare lo scontro di civiltà, mentre le donne cercano strade che non siano quelle che altri ci vorrebbero imporre. Ricordando che l’Udi è Unione donne in Italia e vuole un congresso aperto che provi a mettere in connessione donne italiane e straniere, a valorizzare le tante relazioni esistenti, per imparare da ognuna, confrontarci e costruire molta unità. Una sfida!
Nell’assemblea si è aperto un dibattito a più voci spesso con grande assonanza e qualche analisi divergente ma che ha coinvolto in modo appassionato relatrici e assemblea testimoniato dal numero delle presenti sempre oltre il centinaio e dai tanti interventi.
Il contributo di Elettra Deiana si è concentrato sul contesto generale e ha analizzato le ragioni di una crisi che non è emergenziale, ma strutturale, “conseguenza del venir meno della dalla geopolitica di Yalta” e della caduta “di quell’ordine giuridico/sociale/economico/costituzionale ha creato caos anche a causa delle politiche neoliberiste degli anni ’80 che la sinistra non ha arginato”.
Sono, pertanto, saltati, negli ultimi trenta anni, tutti i parametri che garantivano equilibrio e ciò ha determinato la sparizione del rapporto cittadini/stato, come rapporto di fiducia, e allo stato – inteso come ordine costituzionale – si è sostituito il Security State, che serve ad alimentare il panico come elemento di costruzione di una antropologia umana, elemento fondante del discorso pubblico). Per Deiana, secondo Foucault, si è verificata una spogliazione della cittadinanza di tutte le protesi che sono il diritto di voto, i diritti di partecipazione ecc.. ovvero: i meccanismi della cittadinanza sono sempre più depotenziati.
Assistiamo, dice, ad una risemantizzazione delle parole. Ad esempio la parola ‘riforme’ non ha più il significato proprio suo, per assumere quello di smantellamento di tutto quello che aveva dato benessere e diritti. Assistiamo ad una insignificanza delle parole che ottenebra la nostra capacità critica. in tale contesto, quale significato ha la differenza tra uomo e donna? la differenza, o è politica o è una parola insignificante. Ci sono donne, oggi, di grande potere, ma che non fanno la differenza perché sono sistemiche all’indifferenziato.
Oggi, tuttavia, ricorda Francesca Koch, le migrazioni sono uno dei terreni di sfida più importanti per l’affermazione effettiva dei diritti umani nel mondo, proprio per l’evidente debolezza di coloro che ne sono i protagonisti e nel tema dell’immigrazione si rivela di centrale importanza il concetto di cittadinanza e, ancora di più, per suo tramite, la qualità della democrazia. L’immigrazione andrebbe recepita e trasformata in ulteriore fattore propulsivo della democrazia e non già in elemento di crisi della stessa. Si aprirebbe così la strada ad un concetto di cittadinanza europea, sganciata dai fondamenti nazionali, che aprirebbe la strada ad un nuovo tipo di società civile, in cui sarebbero tutti/e straniere privilegiate (v. Rosi Braidotti), con un nuovo concetto di politica non più legato allo stato-nazione.
La risposta data dalla politica europea di chiusura costituisce una mera illusione (Zygmunt Bauman). Wendy Brown si è interrogata a lungo sul perché dell’esistenza dei muri, nonostante la loro inefficacia. La risposta può essere nel fatto che la crisi di sovranità europea convive con la necessità del capitalismo di avere manodopera irregolare, e che la situazione di non diritto alla frontiere convive con il desiderio politico di potenza, di protezione e di innocenza. I muri si giustificano solo sul piano del desiderio e dell’investimento emotivo, sono dei feticci, parlano di noi; non rispondono ad una esigenza funzionale, ma attengono all’ immaginario, al fantasma nazionale che associa l’outsider politico alla differenza ed al pericolo. Nelle teorie e nelle ricerche sulle migrazioni si lamenta la invisibilità delle donne; le migranti sono ignorate o viste come passive, al traino degli uomini e l’esperienza migratoria degli uomini, benché parziale, viene elevata a modello universale e neutro come Colonia dimostra.
Si possono fare scelte radicali per uscire da un presente asfittico e che condiziona tutto se si riparte dal dono e non dal consumismo sostiene Valentina Sonzini. Il concetto del dono non come gesto consumista o solidarietà da parrocchia, ma come filosofia di vita trattenendo solo il necessario e ciò che è più caro, e lasciando andare il resto. Perché chi sceglie il dono stringe relazioni dense che si basano sulla fiducia e lo scambio e non ammettono revoca: sono definitive, relazioni che rimettono in gioco tutto e che guardano lontano, relazioni rischiose che non ammettono mezzi termini. Ciò che per molti si definisce come “altraeconomia”.
Come donne abbiamo la possibilità di contrastare con il nostro impegno ciò verso cui le oligarchie delle multinazionali puntano: la definizione di una democrazia, cioè di una realtà nella quale il potere economico e l’interesse di pochi è più importante e decisivo della società civile.
Si può non sentire la necessità di democrazia? si può non sentire la necessità di vivere liberi di scegliere come essere, cosa mangiare, dove andare, cosa dire, chi amare? Risponde Valentina “forse sì, ma di certo, per le donne no. Ho la presunzione di dirlo: per le donne non è possibile. Se osserviamo la situazione di inerzia, mediocrità e di incuria che ci circonda, non possiamo non sentire il bisogno di una sintesi politica che traduca in atto le migliori intuizioni, che faccia piazza pulita di una politica neoliberista asfissiante basata sul patriarcato più becero, sui pregiudizi, gli stereotipi e la xenofobia. E questo bisogno lo sentiamo tutte perché se non fosse così oggi, in questa anteprima, non avremmo focalizzato l’attenzione su così tanti temi che sentiamo urgenti, urgenti perché una risposta di donna si faccia avanti per pronunciare parole in cui tutte ci possiamo riconoscere Prosegue “il capitalismo non è diverso dal patriarcato e non è un caso che proprio nel patriarcato trova la sua espressione massima. Il capitalismo ha bisogno dell’uomo solo. Ha bisogno della donna consumatrice ignara e ignava, della donna che non si interroga sulla relazione sesso-servizio, che fa confusione fra conciliazione e condivisione, che si specchia negli stereotipi pensando di farsi un piacere facendo di tutto per piacere. Il capitalismo ci ha sgonfiato i ventri perché ci sentiamo troppo povere per avere figli o vogliamo – o dobbiamo – continuare a lavorare senza tregua; ci ricatta quotidianamente. Il capitalismo non è morto, anzi, e “se, per citare Naomi Klein, una rivoluzione ci salverà, quella rivoluzione è multiforme: include il clima, include le disuguaglianze, include la lotta contro lo schiavismo sussurrato e i negrieri globali, che ci sono anche se non li vediamo, e non vogliamo vederli.
Creare dunque alleanze, riconoscere le genealogie, ribadire il nostro esserci, avere il coraggio di ricostruire quotidianamente la nostra identità (in un percorso di rinascenza), porci domande non ovvie né scontate, vivere la politica come un campo di battaglia dove conta esserci e agire: questi sono gli strumenti che il femminismo ha ancora dalla sua per leggere il mutare dei tempi. Possiamo vivere una vita giusta in un mondo ingiusto.
È Judith Butler a suggerire che se non si guarda all’altro, se non si costruisce un senso di comunità, si diventa il sistema nel quale fatichiamo a trovare un senso, e non credo che, a questo punto della storia, nessuna di noi ne abbia l’interesse.
Approfondisce il discorso Rosangela Pesenti, ricordando che la crisi, i suoi caratteri e la soggettività politica delle donne vanno affrontate con parole chiare superando specialismi e autoreferenzialità.
La crisi della democrazia ci rimanda alla nascita dello stato sessista dall’origine, una matrice mentale che parte da Hobbes e arriva alla nostra Costituzione che, nonostante i passi avanti, riassegna alle donne l’essenziale funzione familiare. Dimentichiamo che il patriarcato ha superato differenti modi di produzione dall’età antica alla età feudale dal capitalismo oggi alla globalizzazione. In ogni epoca, e maggiormente in questa, delle donne vengono cooptate dal potere al suo servizio perché la struttura dell’immaginario poggia sulla gerarchia e oggi l’emancipazione di alcune è pagata sulla pelle di altre. Siamo ancora dentro questa storia, nonostante le donne siano state l’imprevisto della storia. L’unica rivoluzione ma hanno perso quando si sono divise come è successo durante la prima guerra mondiale o non sono state ascoltate come è successo a Rosa Luxemburg. Anche se lo stato sociale ha spostato quote di servizi della riproduzione umana la trasformazione in merce è rimasta più importante dei servizi alla vita e oggi vediamo il contraccolpo con le privatizzazioni. La domanda che tutta la situazione storica ci pone è : ce la faremo? Vale, per sua esperienza, la grande lezione di F.Pieroni Bortolotti: si se si riesce a tradurre in politica il dovere storico di passare l’eredità ereditata alle nuove generazioni di donne.
Rosanna Marcodoppido (intervento integrale) riparte dalla libertà femminile nell’intreccio con i legami d’amore, l’esito di quella rifondazione di sé in quanto soggetto finalmente al di fuori della svalutazione patriarcale. Avere un punto di vista autonomo sulla realtà, guardare e nominare il mondo a partire da sé e dall’ esperienza storica delle donne venute prima, è stato ciò che in tante abbiamo guadagnato dando senso politico alla relazione tra donne. Il concetto di libertà, che nell’uso corrente significa assenza di vincoli, lo abbiamo ridefinito nella consapevolezza della centralità che assumono le relazioni nella nostra vita: quindi una libertà all’interno dei legami e delle responsabilità e che ha in sé, chiarissimo, il concetto di limite (Vedi disastro di Cernobyl). Abbiamo così messo al centro della politica in modo esplicito un soggetto sessuato, consapevole della propria parzialità, della dipendenza e responsabilità verso gli altri/e, a fronte di una finzione su cui si è costruito il maschile, e in dissonanza con la scissione schizofrenica del soggetto operata dalla cultura maschile ci siamo inoltre riconosciute nella integrità inscindibile di corpo/mente/sentimenti.
Però, mentre noi donne mettevamo radicalmente in crisi le strutture del potere sessista proprio a partire dalla centralità delle relazioni, si andava via via affermando un modello di sviluppo incardinato su logiche di mercato, in un sistema neoliberista con al centro il profitto ad ogni costo mentre la pubblicità ha invaso ogni luogo della vita alimentando narcisismo, individualismo e una attitudine “usa e getta” che contamina i rapporti e mette a rischio la stessa sopravvivenza del pianeta.
La ricerca scientifica e tecnologica ha aperto nuovi scenari che portano miglioramenti nella qualità della vita, ma anche nuove e preoccupanti dipendenze e pongono nuove domande. La verità è che resta debole, molto debole la dimensione politica e una sorta di onnipotenza individualistica ha stravolto anche le pratiche politiche rendendo difficile l’esercizio della democrazia e la costruzione di un noi stabile; ha contaminato le nostre abitudini di vita ormai incentrate sulle tante insensatezze del vivere quotidiano.
Dobbiamo tornare ad occuparci di ciò che sta accadendo nelle strutture più profonde del nostro scenario interiore perché è lì che in buona parte si costruisce il senso dello stare al mondo e l’idea stessa di politica, di democrazia, di pace. Il desiderio di libertà e quello d’amore ne sono componenti fondamentali.
Stefania Cantatore sottolinea come stiamo scontando la grande illusione di aver pensato che le conquiste degli ultimi 40 anni fossero per sempre e non passaggi che potevano essere messi in discussione (vedi leggi sulla maternità o sull’ivg o sulla violenza alle donne e il femminicidio ) sottovalutando la sempre rinnovata capacità di riposizionamento del dominio maschile. Se negli anni 70 abbiamo saputo convincere e raccogliere il desiderio femminile oggi siamo deboli anche per una scarsa interlocuzione con tante altre donne? come le donne migranti di Lampedusa che in un film sono le protagoniste di una storia di immigrazione che non ascoltiamo. Abbiamo scarsamente messo in discussione i paradigmi dell’integrazione, visto che quelli attuali sono imperniati sulla famiglia e le religioni, penalizzanti per le donne e anche per le donne native. Siamo sottoposte al continuo ricatto rappresentato dalla sovrapposizione dei valori della nuova sinistra a quelli del femminismo. La decolpevolizzazione dei gesti dettati da usi tribali, commessi in nome dell’appartenenza e del rispetto delle appartenenze culturali, incoraggia i sogni mai abbandonati dai patriarcati locali. Dobbiamo riflettere anche sulla tendenza degli ultimi papati, ecumenica che è infondo la globalizzazione del controllo sulle libertà femminili. Dobbiamo riflettere su quello che è un vero e proprio sdoganamento dello schiavismo sessuale e lavorativo. Quello che le donne raggiungono ogni giorno va messo in luce al confronto di un potere sempre meno propenso a riconoscere la differenza del pensiero femminista: abbiamo pensato che fosse possibile superare la radicalizzazione del conflitto mostrando un pensiero meno radicale. Un errore che stiamo pagando e facendo pagare a tutte. I codici di lettura che abbiamo mutuato dalla sinistra storica, che ritengo da sempre insufficienti, non sono neanche più sufficienti alla sinistra, che ormai si appella ai codici spirituali delle antiche religioni e si ispira al governo dei sentimenti. È proprio il governo dei sentimenti, che si materializza nella sottrazione delle risorse e nel controllo della cultura dei gesti personali, a costituire il più grosso attacco all’autodeterminazione politica delle donne.
C’è bisogno di parole di donne e non vanno dimenticate le parole delle madri, un’eredità da continuare perché lo sguardo femminile può creare uno spazio di riflessione adeguato al presente.
Sono drammatiche le parole di Ribka che, scappata dall’Eritrea e arrivata in Italia, racconta la sua grande gratitudine per le donne della casa che insieme alle altre l’hanno accolta e hanno capito le ragioni della fuga da un paese che si è trasformato in un’immensa prigione (265 le carceri conosciute) grazie alla sua insopportabile dittatura e alle conseguenze con la persecuzione di ogni dissenso e di regole di arruolamento senza senso con conseguente carico di lavoro sulle donne, povertà e fughe successive. Racconta cosa vuol dire vivere in un paese amico di quella dittatura con un controllo continuo e con la paura per i propri familiari in Eritrea e ringrazia della possibile condivisione di vite drammatiche che l’assemblea ha offerto.
Lia Migale ribadisce l’importanza di pensare in termini globali da femministe per capire come muoversi e come affrontare il “contemporaneo” che oggi sono i/le migranti affrontando la velocità delle notizie e dello spostamento di masse umane e i legami con territori dati per morti e in realtà sottratti alla sopravvivenza di molti e nel caos si chiede, pensando a Roma, se non è arrivato il momento di pensare a una propria rappresentanza.
Laura Greco lavora alla cooperativa A Sud che si occupa di questioni ambientali e sociali, in cui spesso è debole l’approccio di genere. Questo nonostante sulle donne in particolare siano più gravi gli impatti ambientali e siano loro le protagoniste della sussistenza e della resistenza alle devastazioni nel sud del mondo e in ambito rurale ma anche nei sud del nord del mondo. A cominciare da Taranto dove una sviluppo cieco crea patologie importanti alla salute riproduttiva, all’allattamento ai bambini in particolare. La battaglia di Taranto per riuscire come donne ad avere servizi per indagini precoci sulle metroraggie e la salute riproduttiva dimostra l’impossibilità di ascolto delle istituzioni per soluzioni legislative su cui bisogna costruire alleanze per raggiungere l’obiettivo
Sono poi intervenute Federica Dolente raccontando i mutamenti degli ultimi anni su tratta e prostituzione povera in seguito al mutamento dei flussi migratori.
Dalila Novelli ha ricordato il valore della autodeterminazione in un mondo che trascura salute riproduttiva e va verso un’esplosione demografica.
Margherita Cattera sottolinea come il pensiero femminile non sia pensiero dell’uno e pur dichiarandosi d’accordo con la legge sulle unioni civile esprime le sue contrarietà alla stepchild e alla maternità surrogata.
Vanna Palumbo per esperienza racconta come la paura sia cattiva consigliera sugli immigrati e la relazione alla fiducia crei situazioni positive e invita, a proposito dei grandi inganni mediatici, a ricordare il lavoro positivo di tante giornaliste nonostante la loro posizione debole nelle redazioni e la nascita di una nuova associazione consapevole di questo: GIOCO giornaliste per la costituzione
Tiziana Bartolini fa riferimento alle molte donne ai vertici dell’economia e della finanza a livello europeo e mondiale e propone di pensare a come interloquire con loro, ossia con chi il potere lo ha, ma non lo esercita con approccio di genere e si è dimenticata delle altre.
Giovanna Scassellati riassume la tragica situazione della 194 per l’obiezione che si estende alla pillola del giorno dopo
Luciana Romoli, staffetta partigiana, ricordando le tante conquiste sottolinea il senso di pericolo e la paura che serpeggia ovunque per gli immigrati, mentre in televisione vediamo città sventrate e bombardate. Si chiede come far rivivere gli ideali di pace e contro l’atomica delle donne italiane.
Forte e preoccupato l’intervento di Laura Piretti che, di fronte a tante suggestioni del dibattito e allo scenario complessivo globale, si chiede quali strumenti possiamo usare subito per affrontare le questioni su cui abbiamo tanto lavorato e che ci stanno a cuore come la 194, la maternità surrogata, la frana dei nidi, lo welfare diventato liquido (Bauman).Quale parola delle donne e quale protagonismo dell’Udi sulle partite che ci stanno più a cuore mettiamo in campo in modo prioritario se stiamo lavorando a una piattaforma di genere sul rapporto corpo lavoro. A Modena si pensa ad un' iniziativa aggiornata sui Treni della felicità del dopoguerra e proprio da qui può nascere una riflessione sulla "solidarietà" al femminile oggi non più verso i bambini del sud, ma verso le nuove migrazioni, soprattutto donne e bambini. Dall'esempio dei Treni della felicità potrebbe venire slancio per agire e indagare le forme di una solidarietà che veda come protagoniste ancora una volta le donne, sia native che migranti.
Alba Dini ringrazia sentitamente ed esprime la sua gratitudine per una giornata che è stata per lei ricca e che ha sicuramente suggerito a tutte molte riflessioni nuove, per gli interventi fatti da chi sa e non improvvisa opinioni e ha fornito categorie interpretative molto più complesse in un tempo di diseducazione sistematica. La sofferenza sentita in diversi interventi ci riguarda, sostiene, e ci richiede radicalità di risposte perché non bisogna fidarsi di quello che c’è sotto le strutture del potere diventato oscuro. Richiama l’importanza del dialogo e dell’alleanza in comune delle donne perché la conseguenza di ogni discussione è l’azione e gli obiettivi che ci proponiamo.
Delia La Rocca, riesaminando le troppe questioni irrisolte oggi, si chiede da dove ripartire per superare afasia e autoreferenzialità e dire parole di senso sulla polis. Sostiene che oggi siamo oltre il neoliberismo, siamo alla guerra dichiarata! Quali sono le parole di donne sulla guerra? Abbiamo ignorato la crisi troppo a lungo e oggi ci poniamo domande sul nostro modello di vita e se sia trasferibile alle nostre figlie. Domande gravi perché oggi la crisi è connotata dall’ignoranza di dove sta il potere per interloquire, resistere o contrattaccare.
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