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Lasciateci lavorare. Per una contrattazione di genere

Lasciateci lavorare. Per una contrattazione di genere

Un incontro ricchissimo organizzato dall’UDI lo scorso 8 maggio presso Palazzo Valentini a Roma.

Venerdi, 15/05/2015 -
Parlare di donne e lavoro equivale, certamente più che nel caso degli uomini, a parlare di corpi. Perché i corpi femminili, in potenza, ne racchiudono altri. I corpi da generare, ma anche quelli degli anziani, dei disabili, e dei malati di cui da sempre le donne si fanno carico e si prendono cura. Il seminario nazionale, organizzato dal gruppo dell’UDI "Corpolavoro" e presieduto da Vittoria Tola responsabile nazionale UDI, che si è tenuto lo scorso venerdì 8 maggio a Palazzo Valentini a Roma, ha rappresentato un intenso momento di riflessione e di confronto tra esperienze di donne provenienti da diversi percorsi, ma tutte accomunate dall’idea che ci sia un gran bisogno di ripensare non solo il ruolo delle donne nelle case, nelle aziende, nella società, ma la società tutta dalle sue fondamenta.



Un’idea ambiziosa certamente, ma non scollegata dalla realtà di cui si percepisce il movimento interno e l'occasione trasformativa. Lo si è detto mille volte in questi sette anni di crisi, che il capitalismo, lungi dall’essere il migliore dei mondi possibili, ha rivelato apertamente le sue magagne. Serve dunque un sistema socio-economico di altro tipo, ma proprio perché la società presenta complessità elevate e le vecchie categorie di lettura della realtà sembrano schemi ormai vuoti, la transizione verso una società più equa, più sostenibile, più paritaria, è ancora on going, un processo ancora in corso e in definizione. Nessuno sembra avere risposte definitive al superamento della crisi in un’ottica di cambiamento (non certo di restaurazione), ma le donne in questi anni di crisi non sono mai state a guardare e continuano a interrogarsi, a confrontarsi, a costruire e a proporre, perché sono più capaci di vedere gli intrecci tra questioni solo apparentemente separate: bassa occupazione femminile, disparità salariale, congedi parentali insufficienti, denatalità.



In apertura Vittoria Tola ricorda come “la parola lavoro evoca un universo di problemi, di cambiamenti, di difficoltà e di soluzioni che devono essere trovate non in forma singola ma collettiva". Laura Piretti, coordinatrice del gruppo nazionale dell’UDI Corpolavoro, aggiunge: “Mi viene da dire che il passo avanti di oggi è di consegnare, se occorre in certo senso anche imporre, questa misura “CorpoLavoro” fuori di noi, ad una contrattazione, che non a caso definiamo “di genere”, pubblica, con referenti istituzionali, contrattazione di cui, tuttavia, se volessimo definire i confini dovremmo indicare “il mondo intero”. Un nodo cruciale, dunque, è quello di mettere insieme ambiti che normalmente vengono trattati come materie separate, quando invece - tutta la storia delle battaglie femministe insegna - è necessario connettere e intrecciare bisogni e risorse, ovvero i corpi e il lavoro, i servizi, il welfare, la responsabilità sociale della maternità e la genitorialità, lo smantellamento di una cultura sessista e patriarcale. Come sottolinea ancora Piretti “Lo slogan dell’8 marzo 2006 “la precarietà rende sterili” aveva varie chiavi di lettura. […] Era mettere in evidenza con la forza di uno slogan quanto la salute ed integrità del corpo, l’autodeterminazione sulle scelte di maternità, dovessero di fatto entrare con tutta la forza nei luoghi di lavoro e nei tavoli delle contrattazioni, affermando il nesso indissolubile fra i nostri corpi e le nostre vite”.

 

Ed è dal “corpo fertile” che parte la riflessione di Pina Nuzzo, femminista e artista, già responsabile dell’UDI. Perché – scrive Pina - la società “per come è pensata e strutturata non sarà mai “casa” per una donna.” E continua: “Non possiamo più accettare che il corpo fertile di una donna venga sottoposto alla coercizione di un tempo lineare, progressivo, perché mentre si domanda cosa sia meglio fare prima, perde di vista il suo corpo, non riesce più ad ascoltarlo, a decidere cosa è meglio per lei.” Il suo intervento non a caso si intitola “Donne che non si adattano e figure accudenti” (che trovate qui), titolo forte che vuole dare già conto di due temi: autodeterminazione e cura. Non da intendersi uno versus l’altro, così come non sono o non dovrebbero essere in conflitto i corpi delle donne occidentali e quelli delle tante donne migranti – ne parla Pina e lo riprenderà anche Rosangela Pesenti nel suo intervento – a cui è esternalizzato il carico di cura da cui le prime hanno cercato di affrancarsi. “Sulla “badante” - continua Pina - convergono molte delle nostre ambiguità e contraddizioni, a questa figura chiediamo di essere professionale, ma anche amorevole, chiediamo quella cura che non vogliamo o non possiamo dare. Non sono rari i casi in cui i maschi anziani allungano le mani o sono aggressivi e violenti, quasi a superare quell’ambiguo confine di cui stiamo parlando. Ma se queste donne lavorassero in centri per anziani e le famiglie fossero supportate da strutture anche pubbliche, i rapporti sarebbero più chiari, con meno ricatti, meno sensi di colpa. La complessità dei rapporti familiari non può essere gestita solo dalle donne”.



Il nodo cruciale è quello di dividere la cura “l’insieme dei gesti amorosi e gratuiti di un soggetto verso un altro, la cura può essere maschile o femminile, materna e paterna e non è negoziabile” dalla manutenzione “quell’insieme di operazioni quotidiane di cui ogni donna ha esperienza, senza le quali una casa piomba nel caos. Questa fatica è invisibile, è gratuita e non è riconosciuta”. La confusione tra i due ambiti, avviene, suggerisce sempre Pina, perchè queste due “attività” sono comunque a carico delle donne e “questo inquina i rapporti di convivenza, dove diventa difficile distinguere cosa si può o cosa non si può negoziare. Fino a quando il genere maschile non comprenderà il valore della cura, a cominciare dalla cura di sé – manutenzione compresa – potrà pensare che i rapporti tra i generi, ma anche con il mondo, possano essere regolati con l’uso del potere o del denaro”.



L’idea di fondo è la necessità di tessere alleanze non andando oltre il “corpo fertile”, ma prendendolo, questo corpo, come terreno su cui fondare un patto sociale tra donne e tra donne e uomini. Sembra impossibile fare questo senza scardinare il sistema economica capitalista che, come ricorda Rosangela Pesenti (Video-intervista) del coordinamento UDI nazionale, “considera le donne esercito di lavoro di riserva”. “Il lavoro della riproduzione biologica e sociale non è stato messo a tema. Le donne sono un pezzo della natura di cui l’uomo si riappropria. Il soldato prima e il proprietario poi sono "i cittadini" ma le donne sono tagliate fuori da questo diritto. Si considera solo il lavoro produttivo mentre la generazione, senza la quale la specie umana non esistebbe, non viene considerato lavoro”. Il modello capitalista ha fagocitato la vita delle donne espellendole dal mondo del lavoro o sfruttandole. Inoltre, aggiunge Rosangela, “Il modello capitalista ha investito la scuola e i servizi e ha trasformato in senso aziendale scuola, sanità, pubblica amministrazione. Questo significa per le donne un’accelerazione dei tempi di vita, del lavoro proprio e di quello di altre donne, creando una struttura di sfruttamento tra donne, che passa anche dalle relazioni positive. Il lavoro delle nonne che sostituisce il sistema sociale carente è di fatto uno sfruttamento. E’ una cosa bellissima fare le nonne, ma dovrebbe essere un sentimento libero, mentre adesso le relazioni tra le persone vengono assoggettate e le persone non sono più soggetti di diritto”. Quello che più inquieta è che, anche se si dovesse ripensare la società capitalistica dalle sue fondamenta, il patriarcato, sopravvissuto alla caduta del sistema schiavile e poi feudale, potrebbe comunque resistere attraverso la cooptazione di alcune donne a cui vengono distribuite “quote di privilegi”. Torna fortemente il nodo del rapporto tra donne occidentali e donne migranti. “I sacrosanti diritti allo studio e a fare carriera che abbiamo conquistato, vengono messi in opera al prezzo pagato da donne alle quali deleghiamo il lavoro di manutenzione domestica e il lavoro di cura di bambini e anziani, persone di cui non riconosciamo la professionalità e che non hanno una forza contrattuale. Il grande handicap delle donne è essere costrette alla contrattazione privata. O la contrattazione è collettiva e sostenibile perché riconosce un valore, o non esiste”.



Dati, leggi e casi pratici

Linda Laura Sabbadini, Direttora Nazionale Istat ha offerto il suo prezioso contributo presentando e commentando una serie di dati che fotografano la situazione attuale e forniscono numerosi spunti su quali siano le strade più utili da intraprendere nell’ideazione e pianificazione di interventi e proposte. “La crisi ha colpito maggiormente gli uomini (900.000 posti di lavoro in meno) mentre per le donne la situazione è rimasta stabile. La tenuta dell’occupazione femminile è dovuta alla tenuta del lavoro delle ultracinquantenni per due ragioni: per la riforma del sistema pensionistico e per un effetto di struttura generazionale. Ha contribuito anche l’occupazione delle donne straniere, impiegate in gran numero nell’unico settore che ha retto, quello dei servizi alle famiglie. Infine, il terzo elemento è che si sono attivate donne di stato sociale basso soprattutto al sud che, con la perdita del lavoro del marito o compagno, sono diventare breadwinner. In generale, la qualità del lavoro però è peggiorata, il part-time non volontario (cioè scelto dall’impresa e non dalla lavoratrice) è in percentuale doppia rispetto al resto d’Europa. Sono cresciute le professioni meno qualificate, ed è aumentato il gap di sovra-istruzione, ovvero donne con lavori non adeguati ai loro titoli.” Un milione e mezzo le madri disoccupate e parallelamente diminuiscono anche le nascite. La situazione al Sud è particolarmente grave, perché oltre alla bassa natalità, sono tantissimi i giovani che vanno via ogni anno e queste assenze non vengono rimpiazzate da presenze straniere. Al sud le donne che vogliono lavorare e fare figli sono le più in difficoltà, perchè i servizi pubblici sono molto carenti a beneficio degli asili nido privati che crescono ma sono sempre più costosi. “La situazione della conciliazione in questi ultimi anni è peggiorata: una donna su quattro interrompe il lavoro dopo la nascita del figlio. Il ruolo familiare delle donne continua a incidere, ma è interessante vedere che la laurea è l’elemento di protezione ovunque in Italia all’abbandono di lavoro. Questo non vuol dire che trovi il lavoro che volevi fare, ma la laurea è l’elemento fondamentale per avere un lavoro. L’asimmetria dei ruoli è ancora forte anche se ci sono segnali positivi rispetto alla condivisione della cura e del lavoro domestico quando i mariti o compagni sono giovani e laureati. Siamo in un modello “breadwinner” modernizzato: l’uomo lavora e se può aiuta, la donna ha per prima cosa le responsabilità familiari e poi lavora”.



Cosa fanno le istituzioni a fronte di questa situazione tutt’altro che rosea e ampiamente migliorabile? Il Governo non perde occasione per applaudire il suo operato in materia di lavoro, ma c’è chi prova a dare una lettura di genere del Job Acts. Lo ha fatto Marcella Corsi, economista tra le fondatrici di Ingenere, il web-magazine che si occupa di donne ed economia, illustrando i passi avanti e le criticità che presenta la nuova legislazione in materia di lavoro (qui l’intero contributo). “Tra le note positive segnaliamo che, per quanto riguarda l'arco temporale di fruibilità del congedo parentale si estende dagli attuali 8 anni di vita del bambino ai 12, e la possibilità di congedo parentale retribuito al 30% viene prolungata dai 3 ai 6 anni del bambino. Altre novità in materia di congedo parentale sono la possibilità di fruirne su base oraria. D’altro canto, abbiamo sottolineato molte volte come quello della conciliazione sia un terreno minato per le donne, misure che aumentano la facilità di congedi e permessi rendono più agevole il lavoro di cura, ma in un contesto come quello italiano rischiano di scoraggiare le assunzioni femminili se non sono accompagnate da provvedimenti che favoriscono la condivisione della cura dei figli con i padri. Dove c’è scritto “parentale” molti datori di lavoro, per pregiudizio culturale ed esperienza vissuta, leggono “materno”. Il decreto non combatte questo atteggiamento, dato che sposta l’attenzione solamente sulle donne ridimensionando il ruolo dei padri. Questo si evince dall’uso sporadico delle parole “padre” e “paternità” citate solo in quegli articoli, importanti ma allo stesso tempo marginali, che prevedono un ruolo attivo del padre in caso di morte, grave infermità o abbandono del figlio da parte della madre. La parola “maternità” che non viene in nessun caso sostituita dalla parola “genitorialità”". Spostandosi sul piano pratico, quali effetti hanno le nuove misure politiche per l’occupazione femminile? Di casi concreti si è occupata Donatella Orioli (Video-intervista) Consigliera di Parità di Ferrara. “Il problema nuovo riguarda le persone che hanno dai quaranta anni in su. Lavoratrici impeccabili che si trovano improvvisamente affiancate da donne più giovani e a cui viene chiesto di delegare parte del proprio lavoro, e che nel giro di alcune settimane si ritrovano alla porta. Prima i problemi che ci trovavamo a risolvere erano, spesso, legati alla maternità, ai congedi, alle disparità, ma invece adesso c’è un crescendo di queste problematiche che diventa preoccupante. Nella maggior parte dei casi, riusciamo ad ottenere un risarcimento ma non c’è il reintegro e quindi abbiamo perso un posto di lavoro. Le Istituzioni devono essere in prima linea, perché il loro compito è di rendere la società più equa, e nel concreto dovrebbero sospendere ogni finanziamento pubblico verso le aziende dove le condizioni del lavoro non sono ritenute accettabili. Stiamo vedendo un impoverimento che ricorda gli anni ’60 ma senza il miglioramento verso cui si andava in quegli anni”.



Imprenditoria

Le organizzatrici del seminario hanno voluto dare anche spazio al tema dell’imprenditoria femminile, non soltanto da intendersi come un bacino di opportunità lavorative per le donne o come unica possibilità di soddisfazione personale che, nella penuria di contratti e opportunità, può passare soltanto dall’invenzione di un lavoro autonomo. Al contrario, si è parlato di come le donne, il corpo delle donne, possa cambiare l’aspetto e la vita di un’azienda e dei suoi collaboratori. Importante la testimonianza di Elena Salda, Vice-Presidente Gruppo C.S.M. SPA, che ha iniziato il suo intervento ricordando i tanti stereotipi che lei, “donna” e “figlia del vecchio capo”, ha dovuto affrontare quando ha preso le redini dell’azienda paterna. Non si è scoraggiata, anzi. E’ partita dalla sua sensibilità per intraprendere strade di cambiamento. Dall’ambiente di lavoro, pulito e accogliente, alle tante misure che ha illustrato per favorire la conciliazione dei tempi di vita-lavoro dei suoi collaboratori. Asilo aziendale, flessibilità oraria, centro estivo, e l’organizzazione di eventi, come la giornata “Bimbi in ufficio”, che avvicinano i figli al lavoro dei genitori. L’azienda può dunque diventare un terreno fertile di buone pratiche replicabili e permettere – soprattutto nei casi delle aziende medio-grandi – di usufruire di alcuni servizi che il pubblico nei territori non offre a sufficienza a tutti e tutte. Il mondo dell’imprenditoria può anche essere lo spazio dove mettere a frutto i propri desideri e il proprio talento. Simona Lanzoni (Video-intervista), vice presidente di Pangea Onlus, ha dedicato il suo intervento a uno strumento come il micro-credito, utile a sostenere le piccole imprese, in questo caso femminili. “Quando parliamo di povertà, stiamo anche parlando di donne. In Italia, come nel resto del mondo, le discriminazioni di genere a vario livello si traducono in diseguaglianza o impossibilità di accesso alla proprietà, all’educazione e formazione, all’eredità, all’accesso al lavoro e al suo mantenimento. Non a caso sono le donne quelle colpite maggiormente da lavori precari, informali, mal pagati, o su di loro ricadono la maggioranza dei lavori di cura. Il micro-credito è un’opportunità, un’occasione per dimostrare che le donne ce la possono fare e riavviare i loro sogni ripartendo da se stesse”. Il micro-credito, che consiste nella pratica in un prestito non oltre i 25.000 euro, mira a sostenere micro-imprese, cooperative e lavoratori autonomi, e può essere dunque una risposta per tante donne italiane e migranti. A rappresentare queste ultime durante l’incontro Pilar Saravia della rete donne immigrate no.di, che ha raccontato di come sia cambiato negli ultimi quindici anni l’orizzonte professionale per le donne migranti, che rappresentano attualmente oltre il 53% degli stranieri che vivono nel nostro paese. Se nel passato l’unica prospettiva era quella di impiegarsi come colf o assistente per gli anziani, adesso le donne credono di più nelle possibilità di sviluppare un’impresa dove mettere il loro talento e lo dimostrano le 17 mila imprese sul territorio italiano che hanno come titolare una donna di origine straniera.



Giovani

Non sono mancati gli interventi di riflessione sulle possibilità e le grandi difficoltà che vivono le donne più giovani il cui ingresso nel mondo del lavoro è stato contrassegnato dalla crisi. Una libertà e un diritto all’autodeterminazione da ribadire anche oltre il lavoro, non escludendo dal proprio orizzonte una possibilità di realizzazione professionale, ma facendosi sì che la libertà prevalga sulla precarietà violenta e sul ricatto continuo che moltissime giovani donne subiscono. Va in questa direzione l’intervento di Teresa Di Martino (Video-intervista) filosofa e attivista del collettivo Femministe Nove, che ha ripreso alcune parti del Manifesto del collettivo pubblicato nel numero 98 di DWF, 2013. “Facciamo tanti lavori, i più disparati, quando ci sono. Li accomunano contratti precari, quando ci sono, che rendono precarie le nostre vite. I tempi di lavoro si confondono con i tempi di vita ponendoci tutte in disponibilità permanente. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione fanno sì che si possa lavorare a casa, in autobus, in treno, in qualunque posto e in qualunque momento. Superare l’individualizzazione che caratterizza tanti dei nostri lavori è già politica.” Da queste e altre articolate riflessioni nasce la proposta di sganciare i diritti dal reddito promuovendo un reddito minimo garantito. “Non facciamo del reddito una rivendicazione neutra per un cittadino neutro. Pensiamo al reddito come a un diritto individuale non scisso, ma connesso a una diversa idea di lavoro, di produzione e di società. Reclamiamo reddito in quanto precarie. Reclamiamo reddito in quanto femministe”. Le fa eco Valentina Sonzini dell’UDI di Genova (a cui abbiamo chiesto di pubblicare il suo bellissimo intervento interamente e che trovate qui) che pone l’accento sulla dicotomia tra il suo salario, sempre lo stesso da quindici anni, e “il tempo vorticoso” della sua vita, nella quale ha cercato di trovare spazio per il femminismo, la politica, i luoghi di costruzione di mondi alternativi. “Penso che se riuscissimo a formulare una proposta di rottura con il sistema che ci ha piegate per millenni, riusciremmo ad indicare il femminismo - con le sue prassi, con la sua costruzione di genealogie - come "altra via". Vogliamo veramente che la cura del mondo che abbiamo impastato fra le nostre mani per millenni, sia da conteggiare fra gli indicatori di reddito? Vogliamo veramente che il capitale delle relazioni, la capacità di essere multitasking, entrino a far parte del bagaglio di un neutro indifferenziato che non riconosce meriti a nessuno? Che si declina a sinistra per darci altri padri fondatori?”.



La conclusione dei lavori, affidata a Vittoria Tola, tesse insieme i fili di una giornata ricca di tanti spunti. E’ evidente che la questione dirimente per le donne e la società tutta sia proprio in quella necessaria contrattazione di genere, invocata nel sottotitolo del Convegno e che tenga conto dei tanti spunti teorici che il femminismo ha prodotto negli anni e delle buonissime pratiche che si sono prodotte in alcune piccole e grandi aziende, nei sindacati, ovunque le donne abbiano avuto la possibilità di prendere la parola a partire da sé e dai propri bisogni concreti. E per bisogni concreti, si intendano innanzitutto i propri più intimi desideri di generare idee, relazioni di cura, momenti di incontro, di fare figli o di non farli.

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