Lapides è un lavoro fotografico dedicato alla condizione femminile e alla discriminazione di genere, realizzato all’interno della cava di granito Luz de Compostella in Spagna, assumendo come simbolo della donna un vestito. La pietra rappresenta un duplice elemento: quello della natura ctonia, della madreterra, e quello della brutalità delle lapidazioni. Le opere raccontano un mondo nel quale l’essere umano è ormai assente. Tuttavia i pensieri e le azioni di donne e di uomini sono evocati da un’atmosfera algida, da un’inquietante bellezza apparente, da una veste e da una natura entrambe violate.
Lapides è un progetto itinerante iniziato nel 2011 per il quale Patrizia Dottori ha ricevuto prestigiosi premi quali il Premio Donna del Marmo di Verona (2013) e il posizionamento come finalista al concorso Lo Sguardo di Giulia di Milano (2013) e al Prix de la Photographie de Paris (PX3), nella categoria Fine art/abstract (2011). La mostra, visitabile a Roma nella galleria Acta International fino al 16 maggio, si sposterà a CarraraMarmotec 2014, dentro e Fuori Fiera, dal 21 al 24 maggio 2014.
Lapides è legato a tre progetti di Patrizia Dottori più ampi: il primo di diffusione dell’idea, attraverso la stampa su granito delle immagini consegnate alle istituzioni (4ER-ForEveRose); il secondo di comunicazione collegato al blog www.camminaconme.com (Menzione speciale all’Ipa Awards di Los Angeles, e finalista al Prix de la Photographie de Paris nella categoria Advertising/self promotion) e alle performance; il terzo di consapevolezza con l’inserimento nel progetto “Madre e Terra” che coniuga la donna-Madre alla terra-habitat, come momento di riflessione su una direzione etica globale. Patrizia Dottori lavora a Roma e a Buenos Aires e ha realizzato mostre e progetti in diverse città italiane, a Budapest, New York, Havana, Teheran, Barcellona, Istanbul e Buenos Aires. Ha ricevuto numerosi premi e menzioni speciali a Parigi, Los Angeles, New York e Londra, partecipando anche come consulente artistico alla 1a biennale internazionale STONE PROJECT, Villa Viçosa (Lisbona).
Quando hai iniziato a fotografare? E che tipo di fotografia preferisci?
Avevo venticinque anni, ma sono vissuta da sempre nella fotografia perché mio zio era fotografo e mio padre pittore. Il mio modo di fotografare va un po’ fuori dal genere del reportage classico. L’ho chiamato “reportage artistico”, essendo stata molto influenzata dal surrealismo e dall’astrattismo, e pian piano, ho costruito questo modo personale di fotografare.
Quando appare il tema “sociale” nella tua fotografia?
Mi sono sempre occupata di politica e di diritti umani, ambientali, sociali. Da molto tempo, desideravo fare un lavoro sulle donne, ma che non fosse didascalico. Il vestito che vedi nelle foto l’ho “dovuto” comprare, mi è quasi saltato addosso. E quando sono andata per un altro lavoro nella cava di granito, è voluto entrare in valigia, e poi ho capito il perché. Mentre stavo lavorando, mi sono accorta che nel taglio del granito c’era la forma del vestito che mi ero portata. A quel punto ho deciso di farlo vivere e di dedicargli una serie di scatti che sono poi diventati questa mostra. Da un po’ di tempo sono estremamente convinta che siano proprio gli artisti a dover spiegare questo tempo così difficile. Sono in atto molte trasformazioni nel tessuto sociale e forse siamo proprio noi gli unici “sopravvissuti” a questi cambiamenti. Forse perché in fondo per noi non è cambiato molto, chi si dedica all’arte va avanti da sempre seguendo i propri sogni nel cassetto. E adesso dobbiamo aiutare gli altri, suggerendo stimoli e nuove idee, abbiamo il dovere di dare messaggi per far capire dove siamo e dove stiamo andando. Il mio grazie va a Giovanna Pennacchi di Acta International, galleria fotografica di Roma, che ha voluto il progetto e mi ha permesso di realizzare questa personale a Roma.
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