Le “maschere” al cinema sono figure obsolete. Forse no...
L’oro del tempo al cinema, il racconto di Matilde Tortora
Chi potrà mai dire con esattezza in quante sale cinematografiche siamo stati nei nostri lunghi anni da spettatori? Ci sono stati, è vero, alcuni che hanno tenuto fedele, puntuale memoria di esse, poiché ogni volta, a proiezione ultimata del film che avevano visto al cinema, appuntavano data, titolo, a volte pure la trama e il loro sintetico giudizio sul film visto e anche il nome della sala dove erano stati.
Lo scrittore Gesualdo Bufalino, ad esempio, tenne un indice-diario in cui appuntò tutti i film visti tra il 1935 e il 1955. E non c’è chi possa non vedere quanto quei vent’anni da spettatore, quelle ore trascorse al cinema non lo abbiano anche esse nutrito e si siano poi convogliate nella sua scrittura e nella sua extraterritorialità conquistata fin da subito proprio in un cinema del piccolo centro di Comiso dove egli viveva.
Sicché sono propensa a credere che andare al cinema, tra le altre cose, tracci anche per ognuno di noi spettatori, un sentiero luminoso, ogni volta che si spengono in sala le luci e il film comincia e noi sperimentiamo mondi nuovi, lontani, romanzi e opere letterarie fattesi racconti di luce e ombre, ciò che pure noi potremmo essere, diventare e ciò che noi stessi siamo magari senza esserne avveduti e, diventando altri al cinema, svecchiarci per quanto pure giovani si possa noi essere.
E, una volta entrati in quella sala, stiamo ben attenti a individuare il posto, attenti a non inciampare se magari le luci si sono già spente, a non precluderci lo schermo alla vista, a guadagnarci incolumi il nostro sposto lì a sedere.
Eppure in quel cinema si sperimenta da un lato l’oro del tempo, quei 90 minuti o poco più o molto più della durata di ogni film che vediamo e anche, ma non molti ne sono avvertiti, il blu del tempo che spetta invece di sperimentare all’operatore o all’operatrice comunemente detti le “maschere” che ci hanno condotto al porto del nostro posto a sedere e aspettano defilati per tutta la durata del film che esso finisca per poi daccapo accompagnare altri spettatori in sala per la proiezione successiva e così via.
Per chi sia propenso a credere che le “maschere” siano ormai figure obsolete, devo riferire che ad una ricerca che ho fatto, ancora oggi si cercano e si reclutano operatori siffatti, tra le attività lavorative per cui si cerca personale, si cercano infatti tuttora “operatori di sala cinematografica”.
Nel dipinto “New York Movie” di Edward Hopper, 1939, l’oro del tempo al cinema e nel contempo il blu del tempo al cinema sono ritratti magistralmente, coesistono, sono l’uno il contraltare dell’altro.
In esso scorgiamo spettatori seduti nelle poltroncine in un cinema, una parte del grande schermo e una scena del film in bianco e nero che vi è proiettato, da un lato a destra ma defilata, la visione dello schermo le è preclusa, sta una giovane donna che s’appoggia al muro laterale della sala, Ella l’operatrice che, poco prima, ha accompagnato al proprio posto alcuni spettatori appena entrati in sala.
Gli spettatori stanno, avvinti e catturati dallo svolgimento del film, immersi in pagliuzze d’oro che li risana del tempo speso in faccende, brighe, noia, tristezza, per il tempo d’oro che dura il film.
Nella stessa sala il blu affaticato del tempo pure esso sta, lo scorgiamo nella postura assunta dalla giovane donna che s’appoggia alla parete per il tempo tra l’inizio e la fine del film.
Forse ha scarpe poco comode, sembra assorta nei suoi pensieri, sta un po' piegata, con le braccia si dà maggior sostegno, si avverte che cerca una posizione meno scomoda in quel suo stare lì in piedi.
Indossa una divisa inappuntabile, d’altronde è “mascherina” in una bella sala e aspetta, paziente, che il film, di cui non ha visto nemmeno un fotogramma e di cui non ha udito alcun sonoro, abbia fine.
Ed io, ogni volta che riguardo quel dipinto, con un brivido da navigata spettatrice, avverto che quei due colori del tempo apparentemente così distanti l’uno dall’altro, entrambi io stessa in un tutt’uno pure possa avere sperimentato come è per tutti. E quanto ne sia stata lungamente forgiata, da quel tocco che è del cinema e pure dell’arte che tutto di noi riesce a dire e a ognuno così tanto mostrare.
Immagine: New York Movie di Edward Hopper, 1939
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