Viaggi svelati - Tanto per cambiare una breve storia a lieto fine. Almeno per ora
Marzia Beltrami Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2007
All’inizio di marzo i giornali di Dubai parlano di una palizzata eretta a bloccare l’accesso alla spiaggia di Jumeirah. Finito, kaput, khalas, spiaggia bloccata. Per colpa di chi, non si sa, ma una finanziaria locale annuncia un progetto edilizio lungo 17 chilometri: altre ville con diretto accesso al mare, altri centri commerciali, altri palazzi. Come se a Dubai non ce ne fossero abbastanza.
Un foto rubata nel cantiere mostra quella che, con scherno, chiameremo 'the potato', la patata, cioè un’enorme penisola artificiale che si prolunga nel mare, dove ora è l`unica spiaggia libera e naturale di Dubai.
Oltraggio! La gente di Dubai è scandalizzata, demoralizzata, arrabbiata. In una città in cui gli affitti sono aumentati anche del 200% negli ultimi due anni, in cui i lavori di costruzione edilizia devastano la visuale da ogni angolo, rimangono pochi spazi in cui l’occhio può vagare indisturbato, in cui la mente può fermarsi in pace. Jumeirah Beach è una di quelle oasi, senza biglietto di ingresso, senza orari di apertura o discriminazioni di salario, abbigliamento, religione, razza.
Su questa spiaggia passano i turisti giapponesi a fare le foto di ordinanza, le ragazze in bikini, le famiglie indiane con i loro picnic, le mamme arabe con i bambini. C’e chi viene a fare jogging, chi a meditare o a fare una partita di calcetto. I muratori asiatici, quelli che in tasca hanno appena i soldi per un biglietto dell’autobus e una bottiglia di Pepsi da spartire con altre 5 persone, ci passano le poche ore libere, sedendosi sul muretto che separa la spiaggia dalla strada.
Insomma, una spiaggia che appartiene davvero alla comunità e che ne rappresenta l’anima.
Scatta la protesta, 'Dubai style': prima un indirizzo email a cui rivolgere i messaggi di protesta, poi una petizione online e una lettera pubblicata su un quotidiano. L’eco del messaggio si allarga, gli altri giornali si interessano alla faccenda, i media internazionali chiamano per un intervista, la faccenda comincia a scottare. La radio ne parla, potrebbe scoppiare e certo sarebbe un guaio se i media stranieri, soprattutto quelli britannici, ne scrivessero. Intanto le firme raccolte dalla petizione online aumentano: 1000 nel weekend, altre 1500 la domenica, fino alla quota, incredibile, di 4000 persone che firmano e lasciano un messaggio a volte triste, o incredulo o arrabbiato.
È la prima volta che i residenti di Dubai, con le loro multiple e diverse identità etniche, sono uniti in una battaglia per il bene della comunità. A promuovere la petizione, ci sono ora migliaia di persone, con la stessa motivazione: il rispetto dello spazio collettivo di Jumeirah.
Il passo successivo è farsi ricevere dal Numero Uno, Sheikh Mohammed. Ci si prova in vari modi, ma la burocrazia ha la meglio e non ci si riesce.
È invece Sheikh Moh’d ad avere in serbo una sorpresa per i cittadini del suo regno: una telefonata a mezzanotte di giovedì lascia trapelare che forse Sua Altezza potrebbe aver fermato i lavori. La mattina dopo i titoli dei giornali nazionali confermano la notizia: Sheikh Mohammed ha dato l’ordine di smantellare la palizzata, l’intero progetto è stato bloccato. La spiaggia tornerà a far parte della giornata e della routine di migliaia di cittadini.
Si tira un enorme sospiro di sollievo nel sentire che il buon senso e il buon governo hanno prevalso e che i cittadini, la prima volta in cui si sono realmente uniti per dar voce ai propri sentimenti, sono stati ascoltati. La prima vittoria civile popolare di Dubai, la si potrebbe chiamare, la prima volta in cui le tessere del puzzle culturale che formano questa città così frammentata, si sono unite per un ideale comune e non materialista. E hanno vinto.
(22 maggio 2007)
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