Cecenia - Le donne cecene kamikaze sono vittime del patriarcato e della violenza religiosa
Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2006
Le chiamano le shaidkhi, versione russa del termine arabo shahid: il martire pronto a morire per la fede. Sono le donne cecene kamikaze comparse sulla scena del conflitto russo-ceceno, nel corso della seconda guerra caratterizzata dalla radicalizzazione dell’Islam nella repubblica caucasica.
Negli ultimi anni, le shaidkhi sono diventate una costante degli attentati attribuiti ai ribelli ceceni separatisti. Il gazawat (la jihad islamica), la guerra santa contro gli “infedeli”, come supporto ideologico alla resistenza, è una delle motivazioni di adesione delle kamikaze cecene agli attentati terroristici, soprattutto dopo che il peso ideologico della fede musulmana è cresciuto, così come è cresciuta l’influenza dei capi wahhabiti e dei loro battaglioni islamici. Ma, in realtà, il gazawat (letteralmente “incursione”), per i ceceni è, soprattutto, un concetto, un richiamo di ottocentesca memoria alla tradizione di resistenza dei popoli caucasici alle prese con l’invasore russo.
La ricostruzione delle storie di alcune kamikaze cecene conferma, tuttavia, un quadro piuttosto eterogeneo e contraddittorio, dove la retorica religiosa è solo uno degli elementi in causa, e il meno influente. La giornalista russa Julija Juzik, che nel suo libro “Le mille fidanzate di Hallah” racconta le storie personali di tragedia e morte delle martiri cecene, sostiene che il fanatismo religioso c’entra poco: “Sono giunta alla conclusione che l’unica ragione che può spingerle a cercare la morte è una tragedia personale o una vita infelice”. Più del gazawat, nei destini di queste giovani donne conta una struttura sociale tradizionale, che le sottomette e le porta a scelte spesso compiute neppure di propria volontà. Sostiene, ancora, Julija Juzik: “Solo poche ragazze sono credenti e praticanti; tutte le altre hanno o un motivo personale, o semplicemente non hanno scelta”.
Un passato di lutti in famiglia o di violenze subite costituisce un terreno molto fertile. Tutte, o quasi, hanno perso in guerra, un fratello, il marito, il padre. Da qui il soprannome comune di “vedove nere”, la cui lista è stata inaugurata da Haja Besaeva, prima donna kamikaze cecena, di soli diciassette anni, passata alla storia come il “mito” delle vedove nere, dopo che un video la ritraeva mentre si lanciava verso un posto di blocco di soldati russi. Anche Aïza Gazoueva era una donna molto giovane, che si è fatta esplodere insieme con il generale Gheidar Gajiev (commissario militare di Urus-Martan), dopo aver ritrovato i corpi del marito e del suocero che il generale aveva arrestato. Di lei non era rimasta che la testa. “Era una fanatica, una wahhabita?”, s’interroga un’altra giornalista russa, Anna Politkovskaja. “È una spiegazione un po’ leggera. Urus-Martan è un posto molto particolare in Cecenia. Stupri, torture, sequestri di massa, esecuzioni sommarie e un arbitrio insolente che regna ovunque sono da vari anni il pane quotidiano di questa città. Qui la gente odia i militari russi e i rappresentanti del potere federale. E il generale Gajiev è stato oggetto di un odio feroce. Proteggeva i criminali in uniforme, aveva preso parte all’organizzazione di squadroni della morte (…) e aveva partecipato a diverse azioni sanguinarie. Non c’è da stupirsi per la sua fine”. Con cuore intelligente, la Politkovskaja, nel suo bel libro “Cecenia - il disonore russo”, denuncia come “(…) La violenza generi violenza, e la giustizia sommaria sostenuta dallo Stato provochi altra giustizia sommaria ma individuale. L’azione di questa donna kamikaze, appartenente alla terza forza, annunciava il dramma del Nord-Ost e di tante tragedie a venire”. La “terza forza” è costituita da unità di combattenti, per lo più persone offese, umiliate o sequestrate, che si battono per una vendetta privata, ammessa dal codice d’onore ceceno, seguendo obiettivi molto precisi. I saccheggi, gli omicidi e le violenze contro le donne cecene, perpetrati dai militari russi in assoluta impunità, hanno scatenato una condizione di sofferenza, di frustrazione e di rabbia tali da generare un esercito di ragazze-kamikaze disposte a sacrificare la propria vita, per contrastare la feroce repressione russa in Cecenia. Questo esercito è il segno della disperazione, delle ordinarie operazioni russe di “pulizia” (le zaciske) compiute sulle donne, che comprendono la tecnica dello “scalpo” (scollamento del cuoio capelluto dal cranio), la bestiale invenzione del “fagotto umano”, che significa prendere, d’improvviso, in un qualsiasi villaggio, donne, bambini e vecchi, legarli insieme e buttare in mezzo a loro alcune granate, o le torture corporali inflitte nei “punti di filtraggio” (fosse scavate nel terreno o edifici abbandonati).
Il reclutamento delle cecene nei commandi-kamikaze è anche un modo per lavare l’onta delle loro “colpe”, riscattando se stesse e le proprie famiglie. Secondo la consuetudine vigente in Cecenia (la dahat), le donne che sono rapite e stuprate subiscono la condanna a morte della famiglia e del clan di appartenenza, in quanto persone disonorate. Accettano, quindi, di sacrificarsi come kamikaze. Questo è il caso di Zelikhan Elikhadzhieva, una ragazza appena ventenne, stuprata dal fratellastro, istruita alla morte con la violenza e le minacce, ed autrice dell’attentato kamikaze all’aerodromo di Tushino, a nord di Mosca, oppure quello delle sorelle Ganiyevys, vittime di abuso sessuale da parte dei soldati dell’esercito federale russo, e arruolate nel commando-kamikaze, che partecipò all’azione del teatro moscovita Dubrovka.
L’esercito russo ha risposto al fenomeno delle donne kamikaze, lanciando l’operazione “Fatima”, tesa a stanare le cecene votate al terrorismo suicida. La ricerca delle shaidkhi è ancora oggi dura e spietata: “Da quando è iniziata la caccia alle shaidkhi - raccontano alcune giovani donne cecene - anche coprirsi il capo è diventato un problema, perché si è subito sospettate d’integralismo”. Le abitazioni delle kamikaze riconosciute sono fatte esplodere sul modello israeliano senza, però, avvisare le famiglie che vi abitano.
Benché la seconda guerra sia formalmente cessata nel 2002, le kamikaze cecene sono ancora prepotentemente sulla scena internazionale. Le donne stuprate o che rimangono vedove, a causa di scontri tra russi e ceceni, sono all’ordine del giorno. I centri di addestramento delle donne kamikaze non sono smantellati e proseguono gli arruolamenti volontari o costrittivi. In questo complesso retroscena dell’eterno conflitto russo-ceceno, le kamikaze rappresentano l’irrompere improvviso e bruciante di una forma aberrante di “emancipazione” e “modernizzazione” femminile, all’interno di un mondo, che non concede alla figura femminile un ruolo pubblico e attivo.
(13 aprile 2006)
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