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L'altro volto della speranza

L'altro volto della speranza

“Il mio eterno obiettivo è sempre stato fare un film che una donna cinese di campagna potrebbe capire senza sottotitoli”. Aki Kaurismaki

Martedi, 18/04/2017 - L'altro volto della speranza

a cura di Adriana Moltedo esperta di Comunicazione e media



A volte, il modo migliore di trattare un problema serio è quello di utilizzare toni poco seri. O che sembrano tali.



E’ il caso di L'altro volto della speranza, vincitore quest’anno dell'Orso d'Argento per la Miglior Regia di Aki Kaurismäki al Festival di Berlino, che è una commedia surreale e poetica che vede incrociarsi le strade di un rifugiato siriano, interpretato da Sherwan Haji, sbarcato a Helsinki e di un commesso viaggiatore finlandese, interpretato da Sakari Kuosmanen, con l'hobby del gioco d'azzardo.



La bravura di Kaurismäki è nel fare niente recriminazioni, niente polemiche, niente giudizi, ma la capacità di accettare sé stessi e gli altri.



Sembra facile, ma non lo è. Lui è uno di quelli che lo sa fare, e bene e lo fa sembrare la cosa più naturale e lineare del mondo.



Come tutti i suoi film anche questo dà l'impressione di sgorgare così com'è dalla mente del suo autore, a dispetto dell'evidente costruzione, dello stile antinaturalista, dell'intreccio della trama.



Possiede un calore umano e una forza politica che non solo non vengono mai ostentati, ma che anzi vengono trattati con quell'atteggiamento quasi distratto e casuale che fa sembrare il cinema del finlandese e le vita dei suoi personaggi un succedersi di eventi paradossali e surreali che però non potrebbero essere altrimenti.



La straordinaria capacità che ha Kaurismäki di raccontare con questa impassibile naturalezza l'assurdità delle cose e del mondo è arte pura.



Lo sguardo del regista è sempre imperturbabile: tanto di fronte alla storia di un rifugiato siriano, quanto davanti a quella di un uomo che cerca di cambiar vita e lo fa vincendo una somma enorme a poker come fosse una cosa ovvia, e comprando uno squinternato ristorantedove si improvvisano sushi e cucina indiana; balli.



Quando Wikstrom trova Khaled (Sherwan Haji), un profugo siriano di Aleppo, che dorme nel cortile del locale, si arrabbia ed è inevitabile uno scambio di pugni. Ma subito dopo lo accoglie.



Un racconto di un'umanità che è fatta delle stesse cose, che ha le stesse esigenze. I due potrebbero essere due donne e non cambierebbe nulla.



La musica, onnipresente e salvifica, rigorosamente blues e rock, col le parole o coi silenzi, Kaurismäki racconta un mondo dove le persone buone si aiutano fra di loro, ma dove le strade si possono comunque separare, e il male che ci circonda non sparisce facilmente.



Tutto quello che possiamo fare, è fare del nostro meglio.



Anche quando i nostri sforzi si traducono i gesti assurdi e paradossali, e i risultati sono comici e demenziali, irresistibili come certe scene e certe battute ambientate in un ristorante indimenticabile che si chiama "La pinta dorata".



Anche quando un nazista accoltella il siriano, ma c'è sua sorella da aiutare, e quindi si va avanti.



Il film è caratterizzato da scenografie e fotografia che rendono la scena, più che spoglia, una visione metafisica hopperiana, dove la luce e le ombre riempiono gli spazi lasciati vuoti e i colori saturi e pastello rendono materici e tridimensionali attori e oggetti - grazie al grande lavoro di Timo Salminen, molto essenziali, inquadrature statiche, lunghe pause nei dialoghi tra una battuta e l’altra. I personaggi, in tutto, sono poco più di una decina.



Lo stralunato Aki Kaurismäki, nato in una famiglia della campagna finlandese, con il fratello Mika, coltiva fin dall'infanzia la sua passione per il cinema.



Come lui stesso racconta: "Forse ho pensato di fare cinema perché non sono capace di nessun lavoro onesto. Camminavo ogni giorno su e giù per le vie del centro di Helsinki cercando di rimediare i soldi per bere, ma era sempre più difficile trovarne. Allora ci siamo detti: cominciamo a fare film. Uno ha chiesto: su cosa? Io ho risposto: su questo schifo che è la nostra vita".



Kaurismaki impartisce importanti lezioni senza dimenticare di far sorridere, come solo i grandi del cinema hanno saputo fare.



Per dirla con le stesse parole del regista, "A me non importa nulla se uno indossa un basco, un cilindro, un velo: non giudico le persone da come si coprono la testa. E fare delle leggi su queste cose è ridicolo. e tre persone che vedranno il mio film capiranno finalmente che siamo tutti esseri umani, che oggi i rifugiati sono loro ma domani potremmo essere noi..."



Non rinuncia nemmeno questa volta al 35mm e con il consueto uso morbido della fotografia riesce a mettere in scena un mondo fuori dal tempo, sospeso fra le tinte olivastre degli interni e la desaturazione fredda degli esterni.



Tra inquadrature pulite e geometriche e stacchi precisi lo spettatore capisce che siamo di fronte a un clandestino e un uomo in crisi.



Kaurismäki, con una tragicità ammantata di levità, ritorna ai temi a lui cari: i problemi economici, la crisi familiare, le persone escluse dalla società violenta e da un'autorità descritta sempre fredda, se non ostile, la diffidenza prima e l'accoglienza poi del diverso.



Con il suo stile inconfondibile, Kaurismäki alterna momenti drammatici a scene comiche e surreali. Il ristorante diventa spazio agito dai personaggi e isola astorica e atemporale, dove tutto può accadere.



Notevoli tutti gli inserti musicali, caratteristici di alcune opere di Kaurismäki, che rendono il film una ballata country dell'estremo nord, è una miscela di rock progressivo anni '70 e blues in versione finnica.



Aki Kaurismäki gira con la consueta grazia e originalità di sguardo, ironia dissacratoria e umana pietas.



Kaurismaki non crede in una religione ed esonera da questo compito anche il suo protagonista siriano. Crede però nell'umanità e i suoi personaggi, a differenza di sacerdoti e leviti, sono buoni samaritani in cui l'egoismo cerca magari di farsi strada ma senza troppe possibilità di successo.



Laddove anche le fughe, le scazzottate e i litigi sono modulati dalla lentezza e da un agire quasi imperturbabile. Perché a volte le cose, a guardarle con freddezza, si può sperare di comprenderle meglio.



Wilkström e Khaled incarnano due archetipi drammatici oltre che due opposti speculari, l’uomo del ceto medio in piena crisi esistenziale e il rifugiato in fuga dal suo paese in guerra, ma l’intreccio trova ritmo e spessore anche suggerendo i parallelismi e i rimandi che li accomunano.



Ma hanno anche molti punti di divergenza. Wilkström scappa per scelta, Khaled per necessità. Wilkström cerca una causa, Khaled cerca la pace. Wilkström scappa da un familiare, sua moglie, Khaled si strugge per trovarne uno, la sorella. Entrambi cercano disperatamente di costruire o ricostruire la propria identità, ma uno lo fa cambiando luogo (e generalità), l’altro cambiando vita.



Per Kaurismaki stralunato, minimale e personalissimo, da sempre emarginazione fa rima con empatia, malinconia con vitalità, disperazione con ironia. Mai buonista, ci parla della voglia di cambiamento di due figure emblematiche, isolate, solitarie, che si scontrano con un corpo sociale cinico, avido e razzista, in cui l’integrazione è più un mantra che un cardine sociale.



Entrambi dimostreranno la loro nobiltà d’animo facendo del bene non per sé stessi ma per gli altri, Khaled per la sorella e Wilk per lo stesso Kahled.



La genialità del regista finlandese sta tutta nel conciliare la drammaticità della narrazione con l'inarrivabile e inconfondibile humour delicato che lo contraddistingue da sempre.



Un film che rappresenta un quadro di una Finlandia di emigrati, di naziskin, di emarginati, di clandestini, di giocatori d’azzardo, ma anche di un luogo dove sembra ci siano “gli angeli in terra”.



Una comicità fatta di personaggi strambi e teneramente folli, pochissime parole, lunghi silenzi, situazioni assurde, scenografie stranianti e una concezione del tutto particolare dello spazio-tempo.



Alcuni film aiutano a capire il mondo, L'altro volto della speranza è uno di questi film."



Kaurismäki scrive e dirige film da più di trent'anni, con una formula che mescola in modo fortunato tristezza e assurdo. I suoi film si svolgono sempre in una Finlandia dimenticata dal tempo, in cui tutto sembra fermo agli anni cinquanta. Vodka, rockabilly, brillantina e sigarette sembrano essere le uniche gioie dei suoi personaggi, insieme all'amicizia e alla generosità che spuntano inaspettate come fiori dalla neve gelata



“Il mio eterno obiettivo è sempre stato fare un film che una donna cinese di campagna potrebbe capire senza sottotitoli”. Aki Kaurismaki

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