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L’Islam che fa audience<br>

L’Islam che fa audience

Velo o non velo? - I movimenti femminili islamici ci sono, ma in Italia non li conosciamo. Un excursus per sapere cosa accade e una domanda: perchè non se ne parla?

Guardi Jolanda Martedi, 09/06/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2009

Il dibattito sulla laicità nel mondo musulmano in generale non vede le donne come protagoniste. I testi classici sull’argomento e su quelli ad esso correlati sono ricchi di dettagli sul cambiamento delle classi sociali, sui legami nazionali e internazionali, sulle cause dei cambiamenti e su aspetti della capacità dello stato di rapportarsi al sacro e alla laicità. Nessuno, tuttavia, analizza le questioni dal punto di vista del genere. In particolare, pochi o nulli sono gli studi che analizzano gli effetti del processo emancipatorio su strati diversi della popolazione femminile. In paesi dove le differenze sociali sono estremamente marcate l’autocoscienza femminile è appannaggio di un gruppo ristretto di donne, mentre la maggioranza della popolazione femminile è spesso occupata con tematiche relative alla mera sopravvivenza: non dovremmo mai dimenticare questo scarto quando parliamo di Islam e paesi musulmani.

È altrettanto evidente che il diritto alla laicità si gioca in arene che non sono quelle del pensiero dominante sia esso musulmano o occidentale ma che, in particolare, esso ruota intorno al diritto di famiglia. Per conseguire il riconoscimento dei propri diritti le donne adottano fondamentalmente due strategie: l’associazionismo – eterogeneo, ma che in linea generale si rifà a un discorso laico – e il cosiddetto femminismo musulmano.

Le prime associazioni femminili sorsero in Egitto nel XIX secolo e successivamente in tutto il mondo arabo. Queste associazioni erano composte per lo più da donne appartenenti al ceto medio-alto e rispondevano alla necessità di una nuova figura di donna che fosse in armonia con i bisogni della nuova classe emergente nel mondo arabo: quella dei funzionari statali che avevano studiato all’estero che andavano sostituendo la classe degli ulamā’, i dottori della legge, come punto di riferimento culturale. Per questi uomini, in parte sostenitori del colonialismo inglese, una donna ignorante e segregata non rispondeva più ai bisogni della nuova società che si andava formando. Non a caso uno dei paladini dell’’emancipazione’ della donna fu un uomo, Qàsim Amìn, che non solo sosteneva l’istruzione femminile, ma solo a livello basso, ma anche che la donna si togliesse il velo. Tra le rappresentanti più note di questo tipo di associazioni ricordiamo Huda aš-Šar‘awi, nota per essere stata la prima donna egiziana a togliersi la parte di velo che copriva il volto. Le associazioni di questo periodo, alcune propaggini delle quali vediamo ancora  oggi rappresentate, ad esempio in Egitto dalla moglie del presidente Mubarak, che si è fatta promotrice di un progetto #foto5dx#per l’emancipazione della donna egiziana o dalla regina di Giordania, e, anche se in parte se ne discosta, dall’esperienza di Karovane di Fatima Mernissi, sono di estrazione sociale alta e propongono sì un’emancipazione della donna rispetto ai modelli tradizionali, ma sempre entro l’ambito domestico, intendendo quindi il ruolo della donna sempre all’interno della tradizione.

In seguito alla conquista delle indipendenze in diversi paesi arabi, sono sorte diverse associazioni che univano a un’azione concreta un’elaborazione concettuale ispirandosi in vario modo al femminismo occidentale e che avevano come obiettivo finale l’uguaglianza fra i sessi. Queste associazioni, che sopperiscono al ruolo dello stato che si disinteressa dell’emancipazione della donna, tuttavia, non hanno avuto molto successo per il linguaggio utilizzato e soprattutto per il rifiuto delle categorie religiose, unitamente a problemi legati all’impossibilità materiale di raggiungere tutto il territorio di un determinato paese e agire così in modo capillare sulla presa di coscienza della popolazione femminile. Il rifiuto di assumere il modello occidentale in toto deriva, da un lato, dalla strumentalizzazione del discorso donna in occidente, dall’altro dal rifiuto di rinnegare la propria cultura e il proprio sistema valoriale. La disillusione, inoltre, nei confronti dell’occidente che promette a parole di difendere i diritti delle donne ma nei fatti scende a patti con paesi che calpestano i diritti minimi delle donne come l’Arabia Saudita, ad esempio, o difende regimi che fanno della donna un mero strumento politico, ha portato molte donne a rivolgersi all’Islam come unica fonte legittimata per la difesa dei propri diritti. Proprio in quello spazio creato dalla disillusione si sono inseriti i movimenti fondamentalisti che si richiamano a una lettura sclerotizzata delle fonti e che, ciononostante, hanno spinto le donne a rivendicare i propri diritti anche politici in modo funzionale ai loro obiettivi partitici sostituendosi nelle sedi in cui lo stato era assente.

  Un impulso interessante, tutto recente, è stato dato dal ruolo che hanno assunto i media nella vita di tutti i giorni: radio, televisione ma anche internet hanno contribuito alla diffusione di idee e contenuti di vario tipo allo stesso tempo diventando una posta in gioco importante per i diversi movimenti più o meno islamici.

Sono infatti le associazioni e i gruppi a tendenza islamista in vario modo ad essere i più presenti sugli schermi e in rete con una serie di predicatori che riscuotono il successo di una star, ma anche di donne che si prestano a incarnare la donna musulmana ideale che prodiga consigli: Malika Zeràr e Heba Qutb, a esempio, predicatrici presenti su Dream TV, non fanno riflessioni teoriche sulla condizione della donna, ma si attengono esclusivamente alla risoluzione di problemi pratici e perpetuano così l’arretratezza dominante nelle fasce sociali svantaggiate. Le associazioni a matrice islamica tradizionalista, oltre a compensare carenze strutturali, sopperiscono anche al desiderio di aggregazione e confronto disatteso dalle associazioni laiche, basti pensare a Nadia Yasin, figlia dello shaykh Yasin del Marocco, noto esponente islamista, che si è dichiarata a favore della repubblica e dell’emancipazione della donna.

Un ultimo sviluppo è quello fornito da singole donne o gruppi di donne che si richiamano ai valori del’Islam, che anzi non vogliono rinunciarvi ma che praticano una rilettura delle fonti. A prescindere dal sostegno e dalla condivisione o meno che si possa dare a questo tipo di percorso, è indubbio che oggi sembra essere l’unico che può portare a un’ampia base di consenso, punto di partenza per legittimare i diritti delle donne arabo musulmane.

Scopo di queste donne studiose è comprendere il patrimonio musulmano e poter dare applicazione pratica ai suoi ideali per produrre modelli viventi efficaci che liberino la religione dalla prigionia delle tradizioni. Un’esponente di questo movimento, Nimat Hafez Barazangi, siriana, vede nell’identificazione della donna con il Corano la leva che può ribaltarne le sorti all’interno della società musulmana e propone pertanto di promuovere l’educazione islamica a livelli alti delle donne, che solo in tal modo potranno prendere la parola e incidere sul cambiamento.

Recentemente queste donne si sono costituite in un movimento ‘globale’ volto al raggiungimento di equità e giustizia all’interno della famiglia musulmana e affinché eguaglianza, non discriminazione, giustizia e dignità siano la base di tutte le relazioni umane. Il movimento ha lanciato un progetto, chiamato musawah, che nell’arco di tre anni prevede una serie di workshop e convegni volti a formulare un canovaccio di diritto di famiglia entro la cornice valoriale musulmana, canovaccio sul quale poi i singoli paesi potranno promulgare leggi che tengano conto delle specificità locali.

La quasi assoluta indifferenza in Italia rispetto a questi movimenti che all’interno dell’Islam occupano certamente un posto di rilievo è perlomeno strana. Questo atteggiamento non è condiviso, ad esempio, dalle studiose e dagli studiosi di altri paesi, che operano in collaborazione con le donne musulmane, trovando così un punto in comune di discussione, di lavoro e di pensiero. Certamente un dibattito sul velo fa più audience e accogliere, al contrario, una forma di pensiero musulmana ci costringe a riconoscerla.



(9 giugno 2009)

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