Sabato, 09/11/2019 - Ci pensavo in questi giorni, leggendo con sconforto quanto sta succedendo alla Senatrice Liliana Segre. Ma guarda un po’ se una signora di questa età, con questa storia, con tutto quello che ha già dato, con l’enorme stanchezza che avrà nelle ossa, se debba essere proprio lei il simbolo della resistenza non solo al razzismo ma anche all’inciviltà e alla barbarie che sta consumando la nostra vita sociale e mediatica.
Siamo un paese di 60 milioni di abitanti che affida a quest’unica figura, gigantesca nella sua fragilità, una battaglia sproporzionata per la forza del corpo, ma non certo per la forza della memoria. E’ infatti lei l’unica che sia riuscita finora a far balbettare i rappresentanti istituzionali dei populisti-razzisti, ad obbligarli a rispettarla.
E’ interessante quindi ragionare su questa forza.
Quando parliamo di Liliana Segre la nostra mente va di riflesso alla Shoah e all’antirazzismo, ed in effetti il suo impegno civico negli anni ne ha definito un’identità ben precisa.
Quasi sempre, però, trascuriamo il fatto che Liliana Segre sia anche una donna.
Che c’entra, direte voi.
Secondo me c’entra eccome, soprattutto se cerchiamo di riflettere sulle cause di questo impulso collettivo e mediatico che ha individuato proprio lei come la paladina dell’antirazzismo e la nemica dei populisti-razzisti.
Liliana Segre avrebbe avuto la stessa forza e caratura pubblica se fosse stata un uomo? In fondo ci sono stati anche molti uomini sopravvissuti alla Shoah che hanno passato gran parte della propria vita a fare testimonianza e a lottare contro il razzismo.
No, secondo me il fatto che Liliana Segre sia una donna rappresenta quel quid in più che rende dirompente la sua già grandissima forza di testimonianza.
Nell’immaginario collettivo ci sono alcune caratteristiche considerate “di genere” femminile che derivano dalla nostra storia millenaria.
Sì, anche noi donne abbiamo nel nostro DNA una storia, che non è la storia degli uomini, relativa al patrimonio e alla contesa delle “cose” che hanno originato guerre e conquiste, come studiamo a scuola.
La storia delle donne è soprattutto quella del “matrimonio” e della cura delle persone, che non leggiamo tanto sui libri ma che ci hanno raccontato le nostre nonne, che ci tramandiamo con le tradizioni di famiglia, le ricette, soprattutto con i modelli educativi familiari. Una storia di umanità fatta di parti, cura, nascite, morti, accudimento, lavoro, fatica, violenza, che rimane per lo più privata.
Nella tradizionale attribuzione dei generi tocca quindi soprattutto a noi donne, ancora oggi, non solo prenderci cura del futuro (i nostri bambini) e del passato (gli anziani), ma anche essere la memoria di famiglia: ricordarci i compleanni di tutti, raccontare le storie di casa ai figli e ai nipoti, passarci menù di Natale per generazioni, andare nei cimiteri.
Un’“identità di genere” alla quale è tuttora difficile sottrarsi, pena la condanna familiare e sociale.
Succede, poi, come nel caso delle guerre mondiali, che la storia, quella degli uomini, produca eventi talmente gravi da mettere a rischio la nostra stessa umanità.
Un’umanità intesa sia come persone (milioni di morti) sia come quel complesso di emozioni, sentimenti, empatia, solidarietà, cura, anima e coscienza che ci distingue dal mondo animale.
70 anni dopo, succede poi che una gravissima crisi economica si traduca in una drammatica crisi di valori sociali e rimetta di nuovo in discussione la nostra umanità, scatenando istinti razzisti e violenti che pensavamo appartenessero a passato.
In questo momento di disorientamento la gente ha quindi bisogno di un elemento salvifico e generativo, che ci ridefinisca nel nostro immaginario come degni esseri umani.
Ci si aggrappa così alla figura di una donna, non solo memoria e testimone dell’orrore che è stato, ma anche rappresentante di quella atavica autorevolezza nella cura delle persone, dell’umanità, quindi, che viene attribuita alle donne.
L’essere donna, in questi frangenti, diventa inconsciamente un punto di riferimento collettivo necessario poiché vi è un disperato bisogno di tradurre i valori dell’umanità privata in valori di umanità pubblica, che si avverte sono andati persi.
E’ questo l’invincibile fattore D di Liliana Segre al quale mi riferisco nel titolo.
Ora però arriva la domanda delle domande.
Coltivare e tramettere la memoria “umana” è ancora cosa da donne moderne ed emancipate? Deve o dovrebbe esserlo?
Diventare una “donna moderna ed emancipata” è ancora un percorso molto incerto e contraddittorio. Per molte ha significato infatti rinnegare le capacità “storiche” di genere femminile (non cucino, non curo, non piango, non mi emoziono, non mi ricordo) e impegnarsi invece in modo acritico nello sviluppo delle “storiche” capacità di genere maschile, ritenute vincenti (combatto, aggredisco, vinco, faccio carriera, guadagno).
Si tratta dell’annosa questione femminista di come superare la segregazione dei ruoli di genere. Per le donne che vogliano emanciparsi il problema è soprattutto decidere come gestire questa montagna di responsabilità di cura legata al nostro genere che ci portiamo dietro dalla nascita, volenti o nolenti. Sottrarci completamente significa perdere quei valori di umanità del quale vi è un disperato bisogno, soprattutto oggi; tenerne il monopolio significa perpetuare quegli stereotipi che tanto impediscono la nostra libertà di essere e ci privano delle opportunità di crescere.
Un punto di equilibrio, per quelle donne che non sono soddisfatte nè da una prospettiva nè dall’altra, è allora quello di condividere queste capacità, la “nostra” storia umana, con tutte e tutti, insegnandola, ebbene sì, anche agli uomini.
Che, in fondo, è proprio quello che sta facendo lei.
Grazie anche per questo, Liliana Segre.
Articolo di Giovanna Badalassi pubblicato l'8 novembre 2019 in Ladynomics
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