SALUTE BENE COMUNE - Trentacinque anni fa veniva approvata la legge 194 sull’Interruzione volontaria della gravidanza.
Michele Grandolfo Sabato, 27/04/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2013
22 maggio 1978 - 22 maggio 2013
35 anni di LIBERTA’
Trentacinque anni fa veniva approvata la legge 194 sull’Interruzione volontaria della gravidanza, dopo decenni di lotte delle donne per contrastare l’aborto clandestino. Il bilancio è positivo perché la legge ha consentito l’emersione del fenomeno clandestino, ha restituito dignità e libertà di scelta alla donna, ha fatto scendere il numero delle IVG. Ha permesso di parlare di salute riproduttiva nei Consultori e di informare milioni di donne, rendendole più consapevoli. Il bilancio è negativo perché l’altro numero di obiettori di coscienza nelle struttura pubbliche impedisce la piena applicazione della legge 194 e dell’IVG. Le lotte, quindi, non sono ancora finite: per l’applicazione di una legge dello Stato e per riportare i Consultori ad un pieno funzionamento.
Al varo della legge 194/78 gli oppositori esprimevano la preoccupazione che la legalizzazione facilitasse il ricorso all’aborto, ipotizzando fosse quella delle donne una scelta di elezione e non un’ultima ratio. La legge non solo toglieva il velo dell’ipocrisia sull’aborto clandestino, riconosceva il diritto della donna all’ultima parola, chiamando documento, non certificato, la presa d’atto della volontà della donna da lei firmato e controfirmato dal medico di sua fiducia coinvolto nella procedura per il ricorso all’IVG. Dopo sette giorni di attesa per un eventuale ripensamento la donna poteva accedere al servizio per l’esecuzione dell’IVG. Nel caso in cui il medico accertasse condizioni d’urgenza le certificava, autorizzando la donna a non attendere i sette giorni. Pertanto è scorretto chiamare certificato (e certificazione la procedura) il documento di presa d’atto e scorretta la dizione sul modello ISTAT D12.
È evidente il significato politico dell’”errore” nel voler dare a intendere che il ricorso all’aborto dovesse essere autorizzato, in contrasto con il dettato della legge. Per molti era indigeribile l’idea dell’autonomia della donna nel prendersi cura di sé. Come era indigeribile per molti l’idea di servizi innovativi istituiti nel 1975 (legge 405/75), seguendo un’idea geniale del movimento delle donne che ne aveva creati femministi autogestiti, come i consultori familiari. Previsti con competenze multidisciplinari in coerenza con un modello sociale di salute, erano dedicati alla promozione della salute con un approccio non paternalistico direttivo, come necessario per promuovere le competenze al fine di determinare un maggior controllo autonomo sul proprio stato di salute, attenti al punto di vista di genere. Veniva privilegiata la salute della donna e dell’età evolutiva, usualmente coinvolti su aspetti di fisiologia, coinvolti nel cambiamento e quindi disponibili al ripensamento che è condizione favorente la promozione delle competenze.
Indagini dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) nei primi anni Ottanta evidenziarono - come detto - che il ricorso all’aborto non era una scelta di elezione ma un’ultima ratio, che le conoscenze della fisiologia della riproduzione e dei metodi per controllarla erano scadenti. Pertanto si poteva ipotizzare che l’aver riconosciuto alla donna il diritto all’ultima parola e l’azione dei consultori familiari avrebbero determinato maggiori conoscenze e migliori competenze con conseguente minor rischio di gravidanze indesiderate e, quindi, minor ricorso all’aborto.
Così è stato, nonostante l’obiezione di coscienza, spesso di comodo e in odio all’autonomia delle donne. Con le regioni non chiamate in giudizio per interruzione di pubblico servizio, che devono garantire come detta la legge. Anche l’uso inappropriato (più dannoso oltre che più costoso) ricorso all’anestesia generale, invece che alla locale manifesta la volontà di controllo sul corpo delle donne. Ed ha lo stesso significato il non uso dell’aborto medico in tutte le circostanze possibili e tenendo conto della volontà delle donne. A conferma dell’indigeribilità dell’autonomia delle donne, sta la sempre più estesa medicalizzazione della nascita. l’ostracismo sistematico verso i consultori familiari e la non applicazione del Progetto Obiettivo Materno Infantile.
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