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L’insostenibile leggerezza degli ordini nei confronti degli abusi sessuali

L’insostenibile leggerezza degli ordini nei confronti degli abusi sessuali

Le misure prese dagli ordini verso coloro che sono stati condannati per abusi sessuali nei confronti dei pazienti sono sempre adeguate?

Lunedi, 03/12/2012 - Sappiamo tutti quanto è difficile e complicato per una vittima denunciare un abuso sessuale, una molestia subita. Sappiamo quanto sia penoso quando la violenza, la molestia sessuale, l’abuso viene subito in un contesto che dovrebbe essere protetto e protettivo per la persona che lo subisce, quando è un medico, uno psicologo, un terapeuta a violare un paziente, quando alla violenza si unisce anche il tradimento della fiducia che, sempre e necessariamente, una persona accorda a colui che dovrebbe curarlo.

Si invitano le vittime a denunciare gli abusi sessuali subiti, ma siamo certi che perfino di fronte a una condanna siano presi i dovuti provvedimenti da parte degli ordini e che invece a esse non segua nulla, che a chi ha commesso abusi sessuali nell’esercizio delle proprie funzioni, nei confronti di qualcuno che si era affidato a lui per motivi di cura, non sia fornita la possibilità di continuare ad abusare dei pazienti?

Pongo l’attenzione su due casi recenti, ma sono solo due esempi e, sfortunatamente, non si tratta di eccezioni: nel primo caso un medico, a Portici, ha abusato del figlio di una paziente, il bimbo ha dieci anni, mentre la madre era sottoposta a una seduta di agopuntura. Il medico era stato dichiarato colpevole nel processo di primo grado per un caso analogo, nonostante ciò continuava a svolgere la professione, ovviamente non si trattava di una condanna definitiva, ma non sarebbe comunque corretto prendere delle misure per cautelare i pazienti? Nel secondo caso un chirurgo vascolare, a Merate, è stato accusato da diverse pazienti di molestie sessuali nel corso del 2012 e le indagini hanno portato alla scoperta di ulteriori casi negli anni precedenti, nel 1995 era già stato condannato per molestie, il processo si chiuse con un patteggiamento a 18 mesi di reclusione, la pena fu sospesa.

Qui non ci troviamo di fronte a persone sospettate di comportamenti scorretti, qui abbiamo persone riconosciute colpevoli che hanno continuato a svolgere, nonostante tutto ciò, una professione che prevede la sacralità del paziente e che il medico non gli arrechi danno. Tutto questo, il rispetto fondamentale di quella che è la deontologia professionale, in questi casi, è venuto meno, il tutto è stato appurato in sede giudiziaria, eppure non mi pare che vi sia stato alcun intervento da parte dell'Ordine dei medici, che, in teoria, dovrebbe tutelare anche i pazienti. In uno dei due casi, quello di Merate, leggendo gli articoli relativi, si parla di ricorso e reintegrazione, quindi suppongo che vi fosse stata, quantomeno, una sospensione da parte dell’ordine dei medici revocata in seguito.

Proviamo a immaginare quelli che sono i sentimenti delle vittime, che oltre alle profonde ferite subite, hanno affrontato un processo che, nonostante tutto, si rivela ancora umiliante per le vittime, che ancora sono messe sul banco degli imputati, vedono i loro aguzzini, di nuovo, compiere indisturbati crimini del genere. Questi due medici non avrebbero compiuto nuovi abusi, nuovi delitti se fosse stato impedito loro di esercitare, come, credo, dovrebbe essere doveroso in caso di condanne per reati compiuti contro i propri pazienti, per abusi sessuali nei confronti dei pazienti.

Non sarebbe corretto trovare negli elenchi degli ordini, che sono accessibili online, indicazioni circa eventuali condanne, loro natura, segnalazioni, ammonizioni che riguardano gli iscritti? Non si violerebbe la loro privacy e ci si rapporterebbe con i pazienti in maniera chiara e trasparente.

Si potrebbe pensare che ci troviamo di fronte a un tabu, un comportamento aberrante che viene negato e che quando ci si trova di fronte a casi conclamati, si minimizzano, si nascondono, come si farebbe con la polvere sotto il tappeto, ma non dovrebbe essere centrale, per le professioni di aiuto, il paziente, anziché il “buon nome” della professione stessa?

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