"... per attribuire valore professionale ad una donna la sua femminilità, deve scomparire..."
Una lezione pragmatica di senso del limite per dire che ciò che scrivi conta, certamente, ma fino ad un certo punto. Un articolo ben scritto, un titolo giusto, un’inchiesta documentata, insomma l’informazione accurata sono importanti, ma si tratta pur sempre di un tassello in un insieme più grande.
Allora perché sprecare tempo sul titolo della Gazzetta dello sport, che descrive l’eccezionale capacità di Hannah Schmitz, ingegnera trentasettenne a capo del team RedBull della formula1 con questa surreale domanda: “Genio Schmitz: chi è la mamma dietro i trionfi della Red Bull di Verstappen”?
La risposta sul perché sia necessario ragionare su questo titolo è semplice: perché quell’insieme più grande, chiamiamolo cultura, comune sentire, civiltà, educazione si nutrono anche delle parole, dei concetti, delle figure retoriche, delle similitudini, delle scelte espressive che si leggono, imparano e ascoltano in famiglia, a scuola, dalle tv, dalla rete o dalle pagine dei media.
Quel titolo dice tutto su come la capacità professionale di una donna venga percepita da quel media, da quel collega, e venga quindi raccontata al mondo, contribuendo a cementare la realtà: una donna capace è sempre una femmina, meglio se madre.
Il giornale tiene a informarci che Schmitz è una femmina che ha figliato, mentre nel testo sottostante, come per magia, l’articolista le fa cambiare sesso, e ci presenta la professionista come ingegnere e non ingegnera: eppure l’articolo ha lo scopo di annunciare che è grazie al lavoro di questa tecnica di valore che si vince. Ma per attribuire valore professionale ad una donna la sua femminilità, (poco prima evidenziata dal fatto che è madre), deve scomparire. Il valore professionale va nominato al maschile, perché il valore professionale è maschile o non è; se persino una donna raggiunge le vette della competenza il ruolo non può che essere un attributo della virilità.
Alzi la mano chi ha mai letto un titolo analogo sul successo professionale di un uomo. Le mani stanno ferme, perché non abbiamo mai incrociato titoli come: “Chi è l’ingegnera dietro i trionfi dei papà che corrono in pista” oppure “Ecco chi è il papà che ha scoperto la cura contro la demenza senile”.
Annalisa Corrado, ingegnera e una delle studiose ambientali italiane più preziose in questo paese, racconta spesso un aneddoto: “Dovevo tenere una lezione su efficienza energetica e fonti rinnovabili all’interno di un corso di aggiornamento per docenti delle scuole secondarie. In una sala molto elegante e tecnologica la coordinatrice del corso mi accoglie cordiale, scambia con me due chiacchiere sulla lezione e, pragmaticamente, dice al tecnico di sala ‘accompagni l’ingegnere alla sua postazione per collegare il pc’. Mi incammino; sento che non mi sta seguendo, né tanto meno accompagnando, anima viva (del resto i maschi presenti erano rimasti tutti fermi attorno alla coordinatrice). Percepisco imbarazzo e gesti alle mie spalle, finché emerge chiaramente un sussurro chiarificatore: “L’ingegnere è la signora!”.
Come si vede anche a scuola, dove giustamente si danno votacci se si sbagliano le concordanze di genere grammaticale, (è errore scrivere Francesco è brava in matematica) le resistenze a nominare le donne nelle professioni più comunemente ritenute maschili sono inchiodate per bene, e questo è uno dei problemi più gravi per riuscire a raggiungere una banale parità nel mondo del lavoro e nella società. Ma anche l’informazione, dentro a questa resistenza, gioca un ruolo attivo. In questo caso il ruolo asseverato dall’articolo è di conservazione dello stereotipo, dannoso, pericoloso e francamente imbarazzante per il mondo dell’informazione.
Quindi sì, meglio incartarci i pesci con questo giornale, almeno serva a qualcosa di utile.
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