L’inesorabile slittamento dei confini della normalità
Barbara Cicioni - Verso la conclusione del processo per il femminicidio di Barbara Cicioni, uccisa il 24 maggio del 2007 all’ottavo mese di gravidanza
Isabella Rossi Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2009
Sono passati più di sei mesi da quella prima udienza del giugno 2008, quando ebbe inizio il processo per l’omicidio di una giovane donna, Barbara Cicioni, uccisa il 24 maggio del 2007 all’ottavo mese di gravidanza. Tutta Italia ne parlò. In giro per la rete ci sono ancora numerose tracce di quel vivace dibattito. A Perugia capitava di vedere donne commuoversi nei bar, gli occhi incollati al giornale, l’incredulità dipinta nello sguardo. Dissero che erano stati gli albanesi. La voce partì dal nucleo dei familiari più stretti e si diffuse rapida. Ma in quella villetta rosa, è ormai certo, nessuna traccia di estranei, niente impronte papillari o di scarpe, nessun Dna estraneo.
Nel caos che venne ritrovato all’interno della casa all’arrivo dei carabinieri non erano ravvisabili intenti appropriativi, bensì una manovra di depistaggio. L’assassino aveva dimenticato denaro e monili, rovistato superficialmente solo alcuni cassetti, tralasciato la cassettiera per la nascitura e risparmiato le cose di Roberto, suo marito. E’ così che avviene quando l’assassino ha le chiavi di casa secondo Roberta Bruzzone, criminologa e psicologa forense, il tentativo di depistaggio è inconsapevolmente influenzato dall’istinto di conservazione della proprietà. Non si distrugge quello che continuerà ad essere utile.
E Barbara non c’è più tra quelle cose analizzate dalla scientifica. La sua casa attraverso il filmato girato dai carabinieri è un tunnel rosa, gli oggetti si allungano, si arrotondano, perdono la loro struttura, sono reperti che uno dopo l’altro conducono fino al suo corpo, disteso prono nella camera tra il letto e il comò. E’ lì che è morta, probabilmente sopra al suo letto, soffocata da un cuscino. L’assassino l’ha tenuto premuto per un minimo di quattro e un massimo di sette minuti.
La mamma e la sorellina Elena sono due stelle in cielo ha detto la nonna Simonetta ai due nipotini. La nonna Simonetta segue tutte le udienze del processo per l’omicidio di sua figlia. Sta seduta e prende appunti e quando appaiono quei filmati i suoi occhi si increspano di lacrime. Barbara e Simonetta si assomigliano, stessi occhi scuri, stessi tratti del viso. A Simonetta non piaceva Roberto, ma delle botte no. Delle botte non sapeva niente. Barbara non gliel’ha mai raccontato. Sarebbe andata lei di persona a denunciarlo ai carabinieri. Non sapeva che anche Barbara l’aveva già fatto una volta.
Lavorava Barbara nonostante le gambe gonfie e quei 30 kg in più che aveva portato la gravidanza. E dopo il lavoro c’erano i figli e la casa. Avrebbe dovuto riposarsi e invece non l’ha fatto, non ha potuto, non ha voluto. Lui le diceva sempre che era una sfaticata, che non aveva voglia di fare niente, che faceva la vita da signora, che era una poco di buono come sua madre che tanti anni prima aveva avuto il coraggio di separarsi da un marito che la tradiva. Per la cultura di paese la donna che si ribella alle proprie catene è una poco di buono. Il rispetto a prezzo della libertà, la libertà a prezzo del rispetto. Aveva sofferto Barbara di quella separazione ed era per questo che teneva duro. Una questione di principio. Fare bene le cose, costi quello che costi. Ma un giorno Barbara, in visita dagli zii di Roma, si era rifugiata in bagno ed era scoppiata a piangere. C’era amore, armonia, serenità in quella casa. Il confronto con la sua d’improvviso era doloroso e insopportabile. Si fa l’abitudine anche alla sofferenza convincendosi che sia normalità.
Aveva interrotto i suoi studi ad un liceo scientifico di Perugia senza conseguire la maturità Barbara. Non serviva a realizzare il suo sogno. Avrebbe potuto studiare. Simonetta che ama la lettura e crede nella forza della cultura ne sarebbe stata contenta. Per sua figlia, invece, bastava un lavoro, anche umile. Non la pensano così le ragazze dell’Umbria, tra le regioni d’Italia con il più alto tasso di scolarizzazione. Ma Barbara non aveva bisogno di studiare per raggiungere la felicità. A lei bastava una famiglia, dei figli, un lavoro per mantenerli. Iniziò a lavorare come operaia di una lavanderia fino a quando rilevò l’azienda. Nel frattempo si era sposata con il suo primo amore, quello conosciuto a quattordici anni. Gli affari andavano bene. Oltre ad un’altra dipendente la giovane imprenditrice poté assumere anche suo marito, che a seguito di un incidente non poteva più svolgere il lavoro di camionista. A soli trentatré anni Barbara era imprenditrice e mamma in attesa del terzo figlio. Una mosca bianca nelle statistiche sulle donne in Italia che solo tardi raggiungono quella stabilità economica necessaria a concedersi il lusso della maternità. Barbara, dunque, non solo era economicamente indipendente dal marito ma abituata a cavarsela da sé, ad andare dritta per la propria strada. E allora perché?
E’ l’esame dell’imputato, suo marito, a fornire elementi chiarificatori. E’ calmo, padrone della situazione Roberto, risponde a tutte le domande fornendo spiegazioni. Per esempio sulle botte. Le “smanate”, gli schiaffi, gli sventoloni non sono botte. Le botte vere ci sono state sì, ma tre o quattro volte in diciotto anni di frequentazione. E una volta quando Barbara era in attesa del primo figlio. E le minacce di morte che l’hanno sentito fare a sua moglie, secondo lui sono solo un modo di dire delle sue parti, un intercalare privo di significato tra lui e sua moglie. Come gli insulti sistematici, come gli schiaffi. In carcere, ora, ne ha sentite di storie. Uomini che dalle botte le mandano all’ospedale le donne. Lui questo non l’ha mai fatto. Lui sapeva controllarsi.
Qualche volta Roberto si commuove, è quando parla dei figli. Ma nelle intercettazioni ambientali in carcere a colloquio con i genitori e i parenti non si dispera per la scomparsa della moglie. E’ la sua fetta di eredità ad interessargli, il timore che questa possa essere utilizzata per risarcire le parti civili, ad esempio. La lavanderia di Deruta l’ha già ceduta alla famiglia del fratello maggiore senza quasi un corrispettivo perché c’era un mutuo da pagare, spiega. Sua moglie, dice compiaciuto alla Corte d’assise del Tribunale di Perugia, era la mente di casa. Gestiva il patrimonio, pagava le bollette, preparava i versamenti, addirittura lo portava a fare visite specialistiche quando necessario. Era lei che parlava con i medici. Lei ci capiva qualcosa, si schernisce l’imputato. E poi è stato gettato fango su di lui, dichiara al pubblico ministero. Troppo fango. Invece loro erano una coppia normale. Andavano a ballare, avevano fatto addirittura un corso di ballo anni addietro. Seguivano un amico che suonava in un’orchestra itinerante. E poi le faceva sempre un regalo per il suo compleanno, dice sorridendo. Rose rosse. Ultimamente facendole recapitare direttamente dal fioraio. Le aveva regalato anche il solitario, dei bracciali e un orologio, afferma compiaciuto. Ma non aveva fantasia per i regali, gli rimproverava la moglie, e ultimamente si era rivolto ad una zia di lei per farsi consigliare. “Che te devo regalà, t’ho regalato tutto!”. Sbotta sorridente come farebbe un marito qualsiasi, di una coppia comune, parlando della sua anonima vita matrimoniale. Anche ora gliele fa recapitare le rose rosse, con in più due azzurre e una rosa, sulla tomba.
Era gelosa Barbara, assurdamente gelosa fa intendere Roberto. E la lite scoppiata quella sera di tarda primavera del 24 maggio avvenne perché lei non voleva che lui uscisse. Dopo cena si era fatto rasare i peli dal collo da sua moglie che, nonostante la stanchezza e i dolori alle gambe di cui si era lamentata anche con la madre, aveva dato da mangiare ai due bambini, l’aveva preparati per la notte e aveva aspettato Roberto, per cenare insieme. Lui aveva fatto la doccia e si era messo anche il profumo. Un forte profumo maschile, lo stesso che l’infermiera del 118 testimonierà di aver sentito al suo arrivo nella villetta di Compignano verso le una di notte. Sarebbe andato a fare il distillo in lavanderia disse, ma sua moglie non gli credeva. Non c’era alcun bisogno di uscire per quello, l’avrebbe potuto fare all’indomani. Ma Barbara non era una visionaria perchè Roberto a donne ci andava davvero, pagandole. Lo ha fatto con Alina, la ragazza di un night. Con una signora colombiana, con la quale dice di aver avuto un rapporto sessuale costato 36 euro, il prezzo del tappeto che le aveva ripulito in lavanderia. Poi ci sono le amiche. Qualche uscita, scambi di sms, battute e scherzi quotidiani hanno raccontato loro alla giuria. Lui conferma. Erano le ragazze che orbitavano intorno alla lavanderia di Deruta. La lavanderia che egli impose a sua moglie e che nei primi tempi funzionava solo come punto di raccolta. Allora non c’erano nemmeno le macchine per lavare. Tra le prime cose che Roberto acquistò c’era una divano e un televisore. E lui lì non era dipendente di nessuno. Lì lui era padrone. All’inizio non ne sapeva niente di lavanderie ma poi, racconta, con il tempo si poteva permettere anche di giudicare l’operato di sua moglie. Non era mai abbastanza precisa per lui, né a casa, né sul lavoro che lei stessa gli aveva insegnato.
Era stanca Barbara della situazione. Stanca dell’abituale dose di cattiveria che riceveva da suo marito, degli insulti “sei grassa, sei brutta”, delle continue liti, stanca della fatica quotidiana, della mole di lavoro che ingiustamente gravava sulle sue spalle. Alla sua età le ragazze in Umbria escono la sera e hanno tempo per sé. Fu quando iniziò a capire che lui la stava tradendo che l’ultima speranza di riuscire a salvare il suo matrimonio si frantumò in mille pezzi. “Non siamo proprio la famiglia del mulino bianco” aveva detto un giorno ad una sua cognata. Ma era passato del tempo prima che riuscisse ad averne coscienza. Con un sms inviato al marito a Fontecchio per le cure termali, Barbara qualche tempo prima di quel 24 maggio 2007 lo intimava a chiudere il punto di raccolta di Deruta, ritenuto un capriccio. Altrimenti avrebbe chiesto la separazione gli scrisse. Poi, di nuovo ha prevalso l’abitudine alla sofferenza e alla speranza. Il timore di infliggere ai figli lo stesso profondo disagio vissuto da lei durante il divorzio dei suoi genitori. Quello spettro della separazione vista come una condanna a “morte civile”, ad una ghettizzazione sociale, al fallimento dei sogni di bambina ha pesato sulle sue azioni più di tutto il resto.
Era forte Barbara, non aveva paura. Non si faceva mettere sotto, le liti erano normalità.
E a volte il confine della normalità, quell’insieme di rassicuranti quotidianità accompagnate alle menzogne che servono a mantenerle, proprio come la soglia del dolore slitta di continuo. Traccia nuovi disperati traguardi, accoglie impensabili dolori, respinge desideri legittimi. La giovane mamma umbra non ha opposto resistenza al suo assassino, il suo stato di gravidanza non gliel’ha permesso. Forse non ci credeva nemmeno lei. Non immaginava che il suo aguzzino sarebbe andato così oltre. Non con una figlia in grembo che stava per nascere, non con due bambini a dormire nella camera adiacente. Non in una calda sera di primavera tra le 10,30 e le 11,30 quando la natura tutto intorno fiorisce, i bambini giocano sul cortile e la vita riempie le stanze dei casolari sparsi per la campagna umbra.
Le femministe richiedono una massiccia partecipazione alle prossime udienze del 12 e 19 marzo, 2, 14 e 21 aprile e per la lettura finale della sentenza di primo grado a metà maggio.
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