Cibo. Variazioni sul tema/3 - La celebrazione mediatica del cucinare tra equivoci e distorsioni. Un certain regard, quello raffinato di Roberto Mussapi
Marina Caleffi Domenica, 17/11/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2013
Siamo in piena epopea di scarsità e, ironia della sorte, di cibo descritto. Raccontato, reso desiderio, celebrato nella fiction televisiva, protagonista nei reality, format e contest dedicati, onnipresente e crossmediale. Una liturgia dei quattro palmenti, celebrata ossessivamente, che spesso ha pretese di carattere culturale ma nella ridondanza barocca finisce per trascendere in sottaciuta “pornografia”.
Cibo esibito nella sua forma più perfetta, immortalato e mostrato con tanta lucentezza, fino a perdere il legame con la gastronomia o la culinaria, per diventare qualcosa di mortuario. Come se i bucatini all’amatriciana o il bollito misto corrispondessero a una forma platonica degli stessi. Impossibile! Sono al contrario frutto di esperienze da comunicare e lasciar gestire a chi lo sa fare. Questa dimostrazione esaltata del cibo sta alla cucina come le opere di Andy Wharol stanno all’arte di Caravaggio, Picasso, Matisse. La pretesa dell’inscenatore artistico di rendere un brasato “sexy” e desiderabile come fosse una bella donna o un bell’uomo è di per sé funeraria.
“Mortifera e falsa, anche perché non si può scindere un cibo dal suo luogo d’appartenenza. I colori, le forme, i riflessi della gastronomia acquistano senso solo nel loro contesto di provenienza e nella stagione adatta. Ma questo attiene a uno stile del pensiero e del racconto di cui non si trova traccia nei format dedicati. Del resto l’eleganza è una dimensione che se non appartiene andrebbe almeno conquistata, perché salva l’anima. Anche del telespettatore”.
Il certain regard senza appello è di Roberto Mussapi, poeta, scrittore e drammaturgo, gourmand nella sua vita privata e fine conoscitore del cibo. E, naturalmente, anche di quello ben raccontato dalla letteratura, dalla pittura e dal cinema.
L’amore, l’apprezzamento, la conoscenza del cibo può prescindere dall’immaginazione e dalle emozioni personali legate allo stesso?
Il mio rapporto è particolarmente legato alle feste, alle ricorrenze. Nel mio poema "Lo stregone del fuoco e della neve” una parte intera è dedicata al cappone di Natale. Ma è un cibo che si lega ai colori delle fiamme del camino, delle luci delle candele, della casa. E anche alla mia attenta lettura di Dickens del quale ho riscritto il Christmas Carol dove il trionfo e la progressione del cibo sta ad indicare una condizione di felicità umana che è in netto contrasto alla povertà. L’uomo che ha sofferto la fame, o che da qualche generazione non la soffre più, ma che ha attenzione per il cibo dovrebbe mettersi occasionalmente nella condizione di chi la soffre. Anche per riscoprire il piacere di riempire lo stomaco che è vuoto. Riempire un vuoto è una esperienza umana e metafisica al tempo stesso. Dal momento che circa 4/5 del mondo questo vuoto non lo riempie mai, è giusto che chi può farlo lo faccia, occasionalmente, immedesimandosi con il mondo e rivivendo la situazione originaria dell’uomo che ha bisogno di riempiere e colmare una parte di se stesso che è stata svuotata. Non alludo al fagocitare il cibo, esuberare, ma nemmeno rimanere nell’ascetismo di chi si nutre con due radici. Sono un caravaggesco, non uno stilita del deserto. La realtà fisica del mondo
è importante se ha un rapporto con la realtà spirituale.
Dunque un rapporto con il cibo reale, serio.
Mai separato dai ricordi. Legato a persone, ambienti, luci, architetture. Pittoricamente la cucina italiana è anche inscindibile dal nostro patrimonio culturale immaginativo: cosa sarebbe per esempio il neorealismo, il cinema degli anni ’60 senza i nostri piatti? Che esemplificano anche traguardi storici. A Torino, nel ’61, mio padre ci portò a festeggiare le celebrazioni dell’Unità d’Italia e poi a mangiare per la prima volta la pizza. Ci spiegò che era fatta dai nipoti di chi aveva combattuto per l’Unità del nostro Paese. Per me il bianco della mozzarella, il verde del basilico e il rosso del pomodoro restano inscindibilmente legati al tricolore. Quindi il rapporto è serio, proprio per questo guardo con disappunto il proliferare di food show sui media che esibiscono gare fescenniniche rispetto alle quali ‘I giochi senza frontiere sembrano’ le Olimpiadi dell’antica Grecia.
C’è un’esaltazione estetica di chi non conosce la realtà e l’essenza del cibo stesso. Non solo nei media, il cibo è sovraesposto anche nelle conversazioni. Gli stranieri sorridono per la nostrana abitudine di parlarne anche a tavola. È un argomento tanto compulsato perché non crea tensioni ed è alla portata di tutti?
Non parlare di cibo a tavola è un precetto per palati protestanti, anglosassoni, aristocratici. Lo snobismo dei lord, sazi di cacciagione delle loro riserve e del vino delle avite vigne, sconsigliava di assimilarsi al contadino che davanti alla occasionale bistecca doveva lodarla e confortarsi pensando alla prossima. Dunque non c’è niente di più gioioso che parlare di cibo a tavola, suggerirsi prossime leccornie. Quella sì è la sede giusta, altro che la televisione. E poi vorrei ricordare che Stevenson, uno dei più grandi scrittori di sempre, la prima volta che da Edimburgo giunse in Costa Azzurra , assaggiò il Rosè du Provence e disse “Mi sono accorto subito di avere un palato cattolico”.
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