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L’era delle donne e della spiritualità

L’era delle donne e della spiritualità

TEATRO - A pochi giorni alla ripresa del Tour dello spettacolo Finis Terrae, l’attrice italo-sudsudanese Ashai Lombardo Arop si racconta

Silvia Vaccaro Lunedi, 22/09/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2014

"Caminante, no hay puentes, se hacen puentes al andar" scriveva Gloria Anzaldùade scrivendo la necessità di ogni essere umano di costruire ponti e legami che, di fatto, possono essere tirati su soltanto man mano che si procede. Ad ascoltare la storia di Ashai Lombardo Arop, ballerina, attrice e coreografa, viene in mente l’immagine di un ricamo tessuto con pazienza, annodando fili sciolti per tanto tempo. Un percorso a volte faticoso che però le ha lasciato tanta forza e altrettanta grazia, che convivono dentro di lei mescolate insieme, come le sue origini. Figlia di una donna italiana e di un uomo sud-sudanese, scappato dalla guerra mentre già lavorava come diplomatico e giornalista. Una vita da rifugiato politico in giro per il mondo, con una parte di famiglia in Canada, un’altra in Australia e Ashai a Roma, conosciuta da bambina e rivista solo dopo molti anni. “Quando sono andata in Canada per conoscerlo, nel 2010, pensavo di incontrarlo per chiarire alcune cose. Ero molto sulle mie dopo tutti quegli anni di lontananza. Poi, quando l’ho visto, sono crollata e ho scoperto il forte legame di sangue che ci univa. Ero arrabbiatissima con lui, perché non c’era stato, e dopo averlo conosciuto, ho capito che avevo ragione ad essere furiosa. Avevo bisogno di mio padre, della sua saggezza”. Gli anni prima di quell’incontro non sono semplici per lei, per via di quelle origini meticce, che la espongono a troppi sguardi curiosi. Appena ventenne, stanca di sentirsi fuori posto, parte per Londra dove “per la prima volta nessuno mi guardava mentre camminavo per strada”, e quella diventa la sua casa per cinque anni. Messa in stand-by la laurea al DAMS, in Inghilterra Ashai studia arti visive, crescendo dal punto di vista artistico e, cosa forse più importante, ritrovando una sua identità forte. “A Londra ho conosciuto i neri, ma io non ero una di loro, mi consideravano bianca. Lontana da casa, ho capito profondamente il valore delle mie radici e della mia italianità”. Ashai torna a vivere a Bologna, si laurea, e comincia a studiare teatro e danza, iniziando a lavorare in giro per l’Italia. Come molti colleghi, è consapevole che la vita che ha scelto e che ama si regge sull’instabilità, e forse per questo sembra non avere paura di non farcela in questi tempi duri e sconfortanti. “Per molti di noi con la crisi in realtà non è cambiato molto. Facciamo un lavoro in cui non c’è nessuna sicurezza. Ci sono periodi in cui lavori di più, altri di meno, ma amo il lavoro che faccio e la vita che ho scelto. Diverso è per molti miei amici che hanno speso anni per trovare un lavoro fisso e che si sono trovati fuori dalle aziende e con un pugno di mosche in mano”.

E se fossero proprio gli artisti a suggerire nuove soluzioni partendo da questo loro osservatorio “fuori norma”? “Credo che l’arte in questo momento storico abbia una grande responsabilità. Stiamo entrando in una nuova era del mondo, e c’è un forte bisogno di spiritualità e di messaggi positivi. Il teatro e le altre forme artistiche hanno la capacità di trasmettere il senso delle cose attraverso linguaggi simbolici, suoni, movimenti del corpo, che vengono recepiti dal pubblico in un modo spontaneo. Abbiamo la possibilità di parlare alla pancia prima che alla testa”. Questo l’intento dello spettacolo teatrale “Finis Terrae”, di cui Ashai è la protagonista femminile: riuscire a raccontare l’immigrazione anche attraverso la musica e la danza africane, che trascinano il pubblico oltre ogni immaginazione. L’opera, frutto della coproduzione tra la Fondazione Istituto Dramma popolare di San Miniato e il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, andrà in scena nelle prossime settimane a Trieste, Perugia e Catania. Uno sguardo diverso su una tragedia umana di proporzioni spaventose: oltre ventimila i migranti che dal 2000 ad oggi hanno perso la vita in mare, senza che questo abbia convinto le Istituzioni ad aprire dei canali umanitari, evitando così di condannarli ad una morte per cui hanno anche pagato molti soldi. “Da anni lotto per il riconoscimento della cittadinanza alle seconde generazioni e per la piena integrazione di quelli che come me sono a cavallo tra due culture. Ma parlare dei viaggi dei migranti è diverso, io di fatto sono una privilegiata. Non ho dovuto sopportare tutto questo dolore per salvarmi la vita”. Nella rappresentazione delle sofferenze, il regista Antonio Calenda sceglie di usare alcuni simboli della religione cristiana, iscrivendosi nel filone del “Teatro dello Spirito”. Non un teatro confessionale, ma un’idea di partenza di ispirazione cristiana, che rappresenta la lente attraverso cui leggere e interrogare l’esperienza umana. In scena è forte la presenza di tante croci, che insieme formano la barca sulla quale viaggiano i migranti, bastonati da un Lucifero scafista.

Ashai è l’unica donna del gruppo di naufraghi e porta dentro di sé un figlio. “Recitare in questo spettacolo mi ha reso consapevole di quanto sia forte l’essere umano, di quali pene si possano sopportare, e di come si possa comunque sopravvivere all’orrore. Per me, è stata una prova attoriale incredibile, ed è sicuramente il ruolo più importante della mia carriera di attrice. Interpretare una donna che rimane incinta del fratello costretto a stuprarla su ordine di un soldato è un’esperienza fortissima che rivivo sul palco ogni sera”. Tutte le storie che compongono Finis Terrae, rielaborate da Gianni Clementi, drammaturgo e autore del testo, sono storie vere tratte dai bollettini della Caritas, e anche la tragica parte interpretata da Ashai è la storia vera di tante donne africane che arrivano sulle coste siciliane. Nel paese di origine o lungo le tratte intermedie hanno spesso subito violenze, stupri e atrocità inenarrabili. Ma dentro questa storia c’è anche una grande volontà di ribellione e di riscatto e il pietismo lascia il posto ad una vera ricerca dell’incontro tra culture, che avviene grazie alla musica e al ballo. Ashai dentro questo spettacolo è perfetta e si muove a suo agio, anche se per questa parte ha dovuto parlare in un italiano stentato che rendesse credibile il suo personaggio. “Finora ho sempre fatto l’immigrata, la prostituta. Sto ancora aspettando una parte da italiana”. Quella che lei sente come una ferita personale è un brutto segno per un’Italia ancora miope rispetto al tema del meticciato culturale e all’incontro con il diverso. Ma i ponti, si sa, si costruiscono strada facendo.


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