Domenica, 02/06/2024 - In certe sere d’estate Roma è di una bellezza struggente. Se poi si ha la fortuna di godersi il Festival Letterature, l’incanto è garantito. L’anno scorso mi è capitato di andarci senza guardare il programma, volevo regalarmi una serata nello Stadio Palatino, in pieno Parco archeologico del Colosseo. Mi bastava la sensazione inebriante di sedere davanti allo spettacolo dei pini maestosi a incorniciare le rovine. E invece quella sera mi aspettava una sorpresa. Seguii con interesse gli interventi di autrici e autori, e poi arrivò lei: Maaza Mengiste. Lo confesso, non la conoscevo. Mi catturò subito col suo casco allegro di ricci e la voce sottile con cui lesse una lettera indirizzata a una persona amica palestinese, M., in cui l’autrice faceva un parallelo energico tra la situazione in Palestina e quella del suo Paese – l’Etiopia – durante il colonialismo italiano.
Quell’anno il Festival aveva per tema “La memoria del mondo”, e il testo di Maaza parlava proprio di memoria, ma alterata: diceva di una fotografia dell’epoca dell’occupazione italiana che aveva trovato molto tempo prima, che aveva guardato mille volte, e in cui solo ora si accorgeva di qualcosa di strano, le ombre incongruenti, una figura a lato probabilmente tagliata. Un’immagine contraffatta insomma. Da qui la considerazione che il potere può alterare i nostri ricordi: “Noi ricordiamo quello che vediamo, ance se quello che vediamo non è del tutto vero”.
Nel suo romanzo Il re ombra (Einaudi, 2021), mirabilmente tradotto da Anna Nadotti, questo tema è nodale. Si potrebbe persino dire che l’opera tutta sia una lunga didascalia a una foto, o forse a più d’una, e che abbia come obiettivo quello di ripulirla, di restituirle la verità.
Il re ombra si apre e si chiude con una cassetta che contiene fotografie, una scatola preziosa da restituire. Le ha scattate quarant’anni prima un fotografo di guerra italiano, Ettore Navarra, e la donna che è venuta a restituirgliele è Hirut, una soldata etiope che era stata a sua volta ritratta dall’uomo.
Il prologo ha in nuce le due tematiche centrali, la prima delle quali compare al primo rigo: “memoria è raccogliere ossa”. È un attimo, e quella scatola colma di fotografie appare come un ossario, rigurgitante di volti di donne e uomini che hanno fatto la Resistenza del loro Paese.
Mengiste avrebbe potuto limitarsi a dire che nell’esercito etiope c’erano molte donne, e che stava per raccontare la storia di alcune di loro. E invece fa qualcosa di molto più efficace, le nomina, una per una, restituendo a ognuna un nome, un volto, e la potenza è deflagrante: “(…) donne che si chiamavano Aster, Nardos, Abebech, Tsedale, Aziza, Hanna, Meaza, Aynadis, Debru, Yodit, Ililta, Abeba, Kidist, Belaynesh, Meskerem, Nunu, Tigist, Tsehai, Beza, Saba, e una donna chiamata semplicemente cuoca”.
L’altra tematica è il racconto come riscatto, la letteratura come strumento di verità, l’arte come atto politico: “I morti pulsano sotto il coperchio. Per quanto tempo si sono sollevati e sgretolati davanti alla sua rabbia, cedendo alla vergogna che tuttora la paralizza. Ora li sente, le dicono quello che già sa. (…) Racconta, Hirut. È l’ultima occasione per farlo. Sente i morti tumultuare. Vogliamo essere ascoltati. Vogliamo essere ricordati. Vogliamo essere conosciuti. Non potremo riposare in pace finché non saremo stati pianti. Hirut apre la cassetta”. È un imperativo quello che riceve la donna, inappellabile, e agli ordini ha imparato a obbedire.
Dare sfogo a quelle voci significa affrancarle, finalmente. E raccontare una pagina di storia, purtroppo ignorata, in cui l’Italia tentò di imporsi sul popolo etiope con metodi così barbari e atroci che è persino difficile narrarli. Con gli anni, poi, si è insinuata una verità più accomodante, italiani brava gente, generosi costruttori di strade e ponti.
Ettore Navarra è “archivista di oscenità, collezionista di terrore”: è il soldato che ha il compito di immortalare le prigioniere nude, gli impiccati, gli uomini che vengono lanciati in un burrone, quegli uomini che nel vuoto gridano il proprio nome, quel nome che non resta impresso sulla pellicola, ma sulla pagina sì, eccome.
La censura di Mussolini impose la distruzione di quelle foto inumane. Si doveva credere che tutto fosse accaduto in maniera civile, si doveva tramandare una memoria ripulita. Del resto, Indro Montanelli, che era stato soldato in Etiopia, negò di aver mai visto quegli orrori, come negò di aver mai visto i corpi devastati da una delle 1020 bombe scagliate con il loro carico di gas iprite. Ecco cosa ne scrive Mengiste: “Diranno che non è vero. Che i loro aerei non volavano sull’armata di Kidane e non hanno lanciato l’iprite sui combattenti, sui fiumi e la terra. Negheranno i bambini morti, le donne scorticate, le acque avvelenate, gli uomini traumatizzati”. C’è un passaggio nel libro in cui, dopo aver parlato di terreno intriso di sangue, di terrore e feriti, si citano alcuni giornalisti europei, tra cui l’italiano, che descriveranno lo stesso territorio parlando “del sole e delle farfalle, del caldo e dell’altitudine, di capanne decrepite e indigeni non lavati”. Del resto Montanelli è lo stesso che in Etiopia comprò una sposa bambina di 12 anni, sereno del fatto che tra quei selvaggi fosse una cosa del tutto normale; lo stesso che nel 1936 scrisse su “La civiltà fascista”: “Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. No si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà”. Lo stupro di una bambina era ovviamente parte della civilizzazione.
Scrivere è formare un archivio, è resistenza del ricordo. In un passaggio del romanzo, l’imperatore Hailé Selassié dice: “Tutto ciò che abbiamo è ciò che ricordiamo”. Ecco perché è urgente dargli voce e salvare la verità.
Se la memoria è un punto cardine di quest’opera, l’altro è senza dubbio costituito dalle donne. Tutto ruota intorno a loro in queste pagine, sono tenaci, forti, imponenti, coraggiose. Sono padrone e serve che, allo scoppio della guerra, hanno imbracciato il fucile e sono scese in campo, costituendo una forza determinante. Maaza Mengiste si è detta più volte stupita della sorpresa di molti nell’apprendere delle soldate, perché le donne hanno sempre combattuto, ma si è preferito dimenticarlo. Donne protagoniste della resistenza etiope, donne senza paura “di ciò che gli uomini possono fare a donne come loro”. Hirut dice: “il campo di battaglia è il mio stesso corpo”, e in questa affermazione c’è tutta la consapevolezza di ciò a cui lei e le altre donne andranno incontro. Senza tirarsi indietro.
E qui vorrei fare un plauso all’autrice: le donne sono spesso vittime di violenza in queste pagine, agita sia dagli uomini della loro comunità, sia dagli stranieri, quasi a dire che non cambia nulla, amico o nemico che sia, il maschio di quella storia sarà abituato a vederle come naturali prede. Nonostante l’aberrazione, lo stupro viene sempre descritto con un rispetto e una delicatezza rari verso le personagge, ed è davvero un sollievo se si pensa a certa letteratura che ritiene che occorra calcare sull’orrore per descrivere l’orrore, in un approccio voyeuristico di cui davvero non si sente la necessità.
In una nota finale del romanzo, l’autrice rivela da dove le nasca l’impellenza di raccontare di queste soldate etiopi: “I primi racconti che ho sentito sulla guerra tra l’Italia fascista e l’Etiopia sono stati quelli di mio nonno. (…) Solo molto più tardi ho scoperto la storia della mia bisnonna, Getey. Era solo una ragazza, sposata ma troppo giovane per vivere con un marito adulto. Quando l’imperatore Hailé Selassié ordinò alle famiglie di mandare il loro primogenito nell’esercito, lei si presentò volontaria in quanto primogenita; i fratelli non erano abbastanza grandi. Il padre si oppose, e quando consegnò il proprio fucile al novello sposo della figlia perché rappresentasse la loro famiglia, lei intentò una causa per riavere il fucile. Vinse la causa e, davanti ai giudici, prese il fucile del padre e si mise a cantare le tronfie canzoni con cui i soldati etiopi raccontavano le loro imprese e il loro coraggio. Si arruolò, e andò in guerra. La mia bisnonna rappresenta uno dei molti vuoti nella storia europea e africana. Il re ombra racconta la storia di quelle donne etiopi che combatterono insieme agli uomini, e che a tutt’oggi non sono che righe incerte in documenti sbiaditi. Ciò che sono arrivata a capire è questo: la storia militare è sempre stata una storia maschile, ma ciò non è vero per l’Etiopia, e non è mai stato vero in nessuna forma di lotta. Le donne ci sono state, noi ci siamo ora”.
Hirut, la protagonista, ripete spesso “Io sono Hirut, figlia di Getey e Fasil, nata in un giorno benedetto di raccolto”, che è come dire: sono io, sono questo, sono qui.
È un romanzo in cui luci e ombre sono sapientemente modellate, non ci sono banali divisioni tra buoni e cattivi, tra vittime e carnefici. Navarra ad esempio è il soldato dell’esercito nemico, ma sarà poi vittima richiamata a Roma in quanto ebreo. Le donne etiopi non sono angelicate, inizialmente si osteggiano, tra loro scorre diffidenza e gelosia, ma quando devono combattere si uniscono in un potente cerchio di alleanza in cui ripetono “noi siamo più di questo”: più di una domestica umiliata, più di una moglie schiacciata, e diventano giganti.
Non dirò qui dei dettagli della trama, perché è un piacere scoprirli. Mi limiterò a dire che la scrittura di Maaza Mengiste è bellissima, elegante e ricca, come quando dice di “un giovanotto che si lascia ruzzolare di dosso il rumore di fuori”, o della “lunga cicatrice che si increspa alla base del collo e pende sulla spalla come una collana rotta”. Uno stile solenne per un’epopea epica, in cui il coro compare qui e là a rinvigorire la narrazione.
La storia di questo romanzo non è una favola, e il finale rispetta questo rilevante assunto. Non può esserci pacificazione dopo tanto orrore, tuttavia ridare voce a donne e uomini soffocati dal tempo è un estremo e dovuto atto di giustizia, che in questo romanzo Maaza ci consegna, e lo fa in maniera egregia.
Il re ombra è la prova, se mai ve ne fosse bisogno, della potenza ineffabile della letteratura: potete leggere tomi di storia, saggi accurati con dovizia di date e luoghi, che il tempo oblitererà. Ma il volto fiero di Hirut, dritta in cima alla collina a guardia dell’imperatore, quello non lo dimenticherete facilmente.
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