Ladynomics. L'insostenibile leggerezza della demografia al femminile
Come ogni anno escono gli indicatori demografici dell’Istat, e come anno stiamo a commentare gli stessi trend: meno nascite, gente che scappa dall’Italia, aumento della mortalità...
Lunedi, 12/02/2018 - Articolo pubblicato in Ladynomics
Alè. Come ogni anno escono gli indicatori demografici dell’Istat, e come anno stiamo a commentare gli stessi trend: meno nascite, gente che scappa dall’Italia, aumento della mortalità, ecc ecc.
A parte la precisione dei numeri, sappiamo quindi già tutto? Non esattamente. Vediamo un po’ bene cosa succede alle donne (…tanto per non smentirci!).
Il report Istat dice, intanto. che siamo sempre più o meno 60 milioni, ma quest’anno, tra meno nascite, più morti e maggiori emigrazioni, siamo 100.000 in meno.
La cattiva notizia è che abbiamo fatto meno figli in assoluto (-2%), circa 9.000 bambini in meno. Sono nove anni consecutivi che nascono sempre meno bambini e abbiamo battuto ancora una volta il record di minori nascite dall’unità d’Italia. Non c’è da rallegrarsene.
Novemila bambini in meno ma il numero di figli medi per donna è rimasto uguale. Come mai? Pare che ci siano molte meno donne che fanno figli, e sempre più tardi. Dice l’Istat: “Nonostante un livello inferiore di nascite, il numero medio di figli per donna, pari a 1,34, risulta invariato rispetto all’anno precedente. Riduzione del contingente di donne in età feconda (15-50 anni) e progressivo spostamento in avanti del calendario riproduttivo sono tra i motivi per cui la natalità su scala nazionale è precipitata ai livelli sin qui osservati. Sono oggi circa 900mila in meno le donne residenti nella classe di età 15-50 anni rispetto al 2008 (1° gennaio), di cui 200mila in meno solo nell’ultimo anno1. Nel frattempo, l’età media di queste donne è cresciuta da 33,8 anni nel 2008 a 35,2 anni nel 2018. Alla questione strutturale, meno madri potenziali e mediamente più anziane, si accompagna il tema del comportamento riproduttivo vero e proprio. In Italia, come in altri paesi del mondo occidentale, le donne rimandano la scelta di avere figli nella seconda parte della loro potenziale vita riproduttiva. Il che, generalmente, continua a comportare un aumento dei tassi di fecondità nelle età più avanzate, ma anche una riduzione di quelli in età giovanile e, di fatto, una condizione che conduce a ridurre il tempo biologico a disposizione per procreare (Figura 3). L’innalzamento della fecondità alle età più anziane e l’abbassamento tra quelle giovanili modificano, peraltro, l’età media al parto, in continuo aumento in Italia sin dal 1980 (27,5 anni) e pervenuta nel 2017 a 31,8 anni”
Anche gli stranieri, tra l’altro, hanno cominciato a fare meno figli: “Il 19,4% delle nascite stimate per il 2017 è da madre straniera, una quota in lieve flessione rispetto al 2016 (19,7%), mentre l’80,6% è da madre italiana. In assoluto, i nati da cittadine straniere sono stimati in 90mila, il 3,6% in meno dell’anno prima. Di questi, 66mila sono quelli avuti con partner straniero, 24mila quelli con partner italiano. I nati da cittadine italiane sono 374mila, con una riduzione dell’1,6% sul 2016”
Che fare?
Almeno parlarne.
Prima o poi occorrerà pur ragionare collettivamente sul nostro futuro e fare delle politiche adeguate. Queste dinamiche non si cambiano con gli stanziamenti nelle finanziarie per bonus vari, che sono pur sempre sacrosanti. E’ indubbio, infatti, che tendenze demografiche e, di conseguenza, sociali di lungo periodo possono essere affrontate solo con politiche altrettanto di lungo periodo, strutturali e condivise da tutte le forze politiche che le sostengano sempre, anche nell’alternarsi dei governi.
Qui in Italia abbiamo però perso da tempo questa vista lunga, sia come classe politica e dirigente che come elettorato: l’invecchiamento della nostra popolazione ci porta inevitabilmente ad una società con un orizzonte cortissimo, allergica ad un futuro che fisiologicamente può solo spaventare gli anziani e che apparterrebbe invece soprattutto ai giovani. Una minoranza che ogni giorno viene sempre più marginalizzata. E infatti loro, i giovani, l’hanno capito, e scappano: 112.000 gli italiani trasferiti all’estero nel 2017, 45.000 quelli rientrati.
La soluzione che viene riproposta ogni anno è: gli stranieri ci salveranno dalla crisi demografica. Sì, ciao. Lo vediamo in questi giorni come sappiamo gestire bene l’accoglienza degli stranieri nel nostro paese. Solo per recuperare le 900.000 donne tra i 15 e i 50 anni che abbiamo perso tra il 2008 e oggi dovremmo accogliere almeno 1,5 milioni di stranieri (il 73,4% delle donne straniere fa figli con altri stranieri). Ve l’immaginate? Già adesso, con un flusso netto annuale di 252.mila immigrati stiamo a fare i conti con rigurgiti quotidiani di razzismo e con forze politiche che cavalcano spensierate e allegre ogni stereotipo xenofobo.
Il problema è che per fare una politica immigratoria seria in un clima sociale disteso ci vuole, anche qui, una visione di lungo periodo, uno stato organizzato, un’economia ordinata e in espansione senza sacche di sommerso, servizi socio-sanitari efficienti, capacità e volontà di integrazione, bassa diseguaglianza economica e sociale, una scuola che funzioni. Non siamo ancora tutto ciò, né mai lo diventeremo, se continuiamo così. Quindi gli stranieri (soprattutto, concediamolo, LE straniere) non salveranno i nostri conti pubblici né le casse dell’Inps, né lo svuotamento delle classi, se non in minima parte.
Centrale, in tutto questo, rimane, quindi, come sempre, la condizione femminile. Di italiane e di straniere. Tutto il futuro dell’Italia passa attraverso le donne: i figli che queste decideranno di fare, quando potranno farli, le condizioni lavorative e familiari che le porteranno a scegliere una gravidanza piuttosto che rimandarla.
E ritorniamo quindi, al vero punto debole di ogni visione politica attuale: la situazione delle donne in Italia, il loro empowerment e la forza economica e sociale. I programmi elettorali che leggiamo in questi giorni fanno finta di niente su questo tema e non sfiorano neanche il problema del maschilismo e del retaggio vetero-patriarcale che affligge la nostra società ed economia.
E non andiamo oltre.
C’è però un dato positivo, almeno uno, nel report Istat che, si può rivelare favorevole in futuro anche per le donne, anche se a prima vista non sembrerebbe. E’ il dato sulle aspettative di vita, che riguarda l’aumento della speranza di vita degli uomini: “Nel 2017 la speranza di vita alla nascita risulta pari a 80,6 anni per gli uomini, come nel 2016, e a 84,9 anni per le donne, contro gli 85 anni del 2016. Dal momento che la variazione per le donne è frutto di un arrotondamento, che in termini reali è inferiore a un decimo, le condizioni di sopravvivenza della popolazione generale possono ritenersi invariate rispetto all’anno precedente. In virtù dei più rapidi miglioramenti nella mortalità maschile, se confrontati con quella femminile, il gap di genere si riduce nel 2017 a soli 4,3 anni. Si tratta del più basso divario riscontrato dalla metà degli anni ’50, un periodo quest’ultimo dal contesto profondamente diverso rispetto a quello attuale, in cui le donne tendevano anno dopo anno ad ampliare le distanze dagli uomini”
Positivo perché gli uomini stanno imparando a prendersi maggiore cura della propria salute e peseranno meno sul lavoro di cura delle donne, ma soprattutto perché, se aumenta la percentuale di uomini tra gli anziani, state pure tranquilli che le politiche socio-sanitarie diventeranno sempre più importanti.
Si sa, com’è. Se un servizio pubblico è fruito soprattutto dalle donne, i soldi non ci sono mai, come arrivano gli uomini, voilà, tutto diventa più facile, nevvero.
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