Trattare e scrivere della violenza sulle donne non è cosa facile. La penna pende spesso verso il vittimismo, la denuncia furiosa, la registrazione asettica. Probabilmente non c'è un modo giusto per evidenziare il tragico problema dell'aggressività che le donne subiscono (da tempi immemori, per mano di uomini simili a bestie). E non c'è un modo opportuno, perché la scrittura non è un farmaco, né una pillola. Dalla violenza non si "guarisce" senza un mutamento interiore lungo, paziente, volontario; in questo caso, diciamolo pure, collettivo.
Come ha scritto lo scorso 21 novembre Concita De Gregorio su Repubblica: «non servono leggi, bisogna cambiare le teste; ci vuole una rieducazione sentimentale che modifichi l'assegnazione dei ruoli». Tuttavia, un modo di dare spazio al tema può essere quello di mostrare una delle più significative opere d'arte di Elke Krystufek.
Krystufek, artista austriaca vivente, nasce a Vienna nel 1970. La sua poetica è cruda, forte, intensa, a dir poco scandalosa, senz'altro femminista. Per questo, tutto ciò che ha il suo segno e la sua firma non cessa di suscitare polemiche - che in arte, si capisce, sono traccia certa di vitalità e rilevanza. Elke frequenta, negli anni Novanta, l'Accademia delle Belle Arti di Vienna, come allieva di Amulf Rainer, e trae spunti plurimi da Egon Schiele e dall'azionismo della capitale austriaca. Ad oggi, fa arte in tanti modi: con fotografie, video, disegni, installazioni, performance. Si tratta comunque di mezzi espressivi che le occorrono per elaborare contenuti grezzi e diretti, soprattutto sul tema della "sessualità".
Se guardiamo all'opera in questione, del 1991 vediamo un collage che assembla due nudi dell'autrice e diverse didascalie - interessanti da leggere con più attenzione. "Come se l'unica ragione possibile per una donna di rivelare se stessa fosse autoterapeutica". "Perché si pensa che le donne umiliano se stesse quando mostrano la condizione della propria umiliazione?". "Volto del padre (gentile): Rilàssati. Basta rilassarsi. Così. La mia bambina. La nostra bambina. Bene così, lì, lì. E' per te. Il nostro segreto. Appartiene solo a me e te. Tienilo per te. Solo per te. Così sarà bello”. “L’abuso ha sempre qualcosa a che fare con la confusione delle emozioni. Quando fai esperienza di qualcosa che non riesci a capire, e qualcuno ti dice: questo è bene per te, ma non dirlo a nessuno”.
Sono didascalie necessariamente conturbanti, che cercano di condividere artisticamente delle orribili tragedie. Tragedie troppo spesso segregate in un forziere di omertà e dolorosissima negazione. Sono anche, però, delle didascalie che centrano il nocciolo di un conflitto che va risolto - da parte di noi donne - se davvero vogliamo che una nuova rieducazione sentimentale sia possibile. Infatti, come dice Krystufek, l'incaglio è lì dove pensiamo che noi donne ci autoumiliamo quando mostriamo la nostra umiliante condizione di vittime.
Se l'arte di Krystufek può insegnarci qualcosa, infatti, essa ci deve portare ad apprendere il coraggio di "mostrare", di "rivelare", di violare la segretezza di una barbarie subìta; perché questa violazione non significa trasgredire, ma cominciare veramente a vivere e ad esistere, dice l'artista, «in una cultura dominante in cui lo sguardo femminile o femminista deve ancora farsi spazio».
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