Domenica, 23/03/2014 - Nel descrivere una dolorosa esperienza di vita che l’ha segnata profondamente, quale è stata un aborto terapeutico, Laura Fiore con il suo libro 'Abortire tra gli obiettori' ha messo indubbiamente in conto che la propria storia non narrasse solo di sé e di quei momenti difficilmente cancellabili dalla sua memoria e dal suo animo. Che altre donne potessero immedesimarsi in lei e riuscissero a rivivere le emozioni di una analoga vicenda o provassero sdegno al racconto delle sue vicissitudini, ne era perfettamente consapevole. E, forse, Laura voleva proprio che tutto ciò accadesse, non solo per aiutare a far riemergere coscientemente i ricordi in chi li aveva fin troppo sepolti in sé stessa, ma anche per trovare la forza di denunciarli perché non ne succedessero altri analoghi. Della drammatica vicenda da lei vissuta avrebbe ben a ragione potuto chiedere un equo risarcimento alla giustizia, ma non aveva a cuore questo obiettivo. Sempre più spesso le vittime di qualsiasi genere di violenza trovano modo di andare avanti nella propria riscossa personale battendosi nelle aule giudiziarie, mosse dalla speranza che la loro esperienza negativa possa servire a chi si trovi nelle medesime condizioni. Il ricorso alla denuncia alle autorità competenti per quanto aveva subito in termini di omissione di soccorso e di lesione della propria dignità non avrebbe, però ,aiutato al meglio Laura nel suo intento di prevenire altri drammi, perché aveva bisogno di ristori non collegati ai tempi alquanto lunghi delle pronunce della magistratura italiana.
Le occorreva qualcosa di più, ossia confrontarsi con altre donne, e per ricevere da loro conferma di avere vissuto una vera e propria “tortura”, come amaramente definisce quanto le hanno fatto sopportare, e per elaborarla con quante avessero vissuto un’analoga violenza. Raccontare per superare il dolore di un dramma e per aiutare chi ancora ne porta dentro i segni indelebili è stato l’intento di Laura. Ad ascoltarla in una recente intervista, allorquando descrive il momento in cui gli operatori sanitari, a cui era ricorsa per l’aborto terapeutico di un feto affetto da una malattia genetica, le appoggiarono sul ventre la figlia ancora attaccata a lei per il tramite del cordone ombelicale, sentirsi toccata per due volte dal feto ancora vivo, sapere che per quattro giorni i medici tentarono di rianimarlo per consentirgli di sopravvivere, essere subdolamente costretta insieme al marito a dare un nome alla figlia, si appalesano quali gesti crudeli, finalizzati ad un unico obiettivo, ossia fare sentire Laura squartata dentro da un tagliente senso di colpa. Lei, che quella figlia non l’aveva voluta perché consapevole di non poterla aiutare in vita per come una mamma vorrebbe. Certo è che quello squarcio se lo è portato dentro, perché le hanno imposto di indossare l’abito della carnefice e, quel che è più grave, non solo per i momenti immediatamente successivi all’interruzione volontaria di gravidanza. Laura quel senso di colpa se lo è sentito ingiustamente comminato per anni ed in maniera continuativa, quale una tortura lenta ed inesorabile del corpo, della mente, dell’anima.
Così si è determinata a raccontare quella tortura, per esorcizzarla, per ritornare ad avere rispetto di sé stessa, per essere d’aiuto a quante possano ritrovarsi nelle sue stesse condizioni e per fare divenire la propria indignazione un atto di accusa collettivo per come viene applicata fattivamente la 194 in Italia. Per queste motivazioni è nato Abortire tra gli obiettori, un libro che Laura Fiore sta presentando in giro per il Paese e i cui più recenti appuntamenti in ordine di tempo sono stati a Salerno il 13 e a Roma il 20 marzo scorsi. Quando si parla di obiezione di coscienza, con precipuo riferimento alla legge che ha legalizzato l’aborto, si sciorinano dati e percentuali numeriche che fanno della nostra nazione il baluardo dell’inapplicabilità concreta della normativa a difesa dell’interruzione volontaria di gravidanza. Di recente il Comitato dei diritti sociali presso il Consiglio d’Europa ha redarguito l’Italia per violazione della suddetta legislazione a causa dell’elevato numero degli obiettori, ma i dispositivi e i richiami comunitari non possono stare alla pari delle voci narranti le storie che stanno dietro a tali pronunce sovranazionali. Le percentuali, le norme, le condanne non parlano alla nostra mente, non ci emozionano, non ci muovono ad un doveroso risentimento al pari dei resoconti di un riservato e lancinante dolore e dei racconti di una dignità sentita profondamente offesa e vituperata, anche a distanza di anni.
Laura Fiore poteva serbare per sé quel dramma vissuto come una crudeltà, che si accompagnava comunque ad una scelta personale dolorosa, e, se ha scelto di condividerlo con noi, non possiamo che esserle grate. E’ difficile, tremendamente difficile, dimenticare quella tortura che lei definisce “da Medioevo” e nel contempo rinnovarne il dramma ogni volta che la si racconti. Ma le donne sono capaci anche di questo, ossia soffrire per alleviare i tormenti di chi, come loro, si è trovata in situazioni di vita analoghe. Per quel che ha subito nelle fasi precedenti e successive all’aborto terapeutico, Laura si è sentita punita per la scelta di avere voluto interrompere la gravidanza, castigata perché accusata e condannata per quella decisione. I segni di quel verdetto li porterà con sé per il resto della vita, ma potrà sentirli meno incisi nella carne e nel cuore solo che il suo impegno a denunciare le sofferenze a lei inflitte conduca a rendere più umana l’assistenza sanitaria alle donne che si risolvano a porre fine ad una gravidanza non desiderata. Eh sì, perché il rispetto di queste scelte, precipuamente personali, giammai deve essere disgiunto dalla salvaguardia della salute psicofisica e della dignità di chi sceglie liberamente e consapevolmente di non essere madre.
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