L’attesa al tempo del coronavirus - di Anna Claudia Cartoni
Chi vive accanto alla disabilità è abituato a procedere ad una velocità diversa, conosce la pazienza e la capacità di adattarsi al dolore
Mercoledi, 25/03/2020 - Ho vissuto due anni in una sala d’attesa di una terapia intensiva ad assistere mia figlia appena nata in bilico tra la vita e la morte.
Due lunghissimi anni.
Ne siamo poi usciti portandoci appresso una grave disabilità. In quel momento, la vita ha inchiodato di botto, regalandomi, seppur nel dolore, una visione completamente diversa del tempo e dello spazio.
Questo è quello che sta succedendo ora a tutti, senza distinzione di sorta. Abituati ad un mondo dove tutto scorre velocemente, abbiamo dimenticato cosa vuol dire fermarsi, per riflettere magari su un pensiero o un’emozione, abbiamo paura di ritrovarci da soli con noi stessi, ci annoiamo poiché dall’esterno non possiamo avere nessuno stimolo che ci tenga impegnati, cinema, teatro, amici.
Ci sentiamo soli. Abbiamo paura di questo mostro che non si vede e che ti potrebbe attaccare alle spalle in qualsiasi momento. Abbiamo difficoltà a fare progetti per il futuro poiché non sappiamo quando sarà.
Viviamo nell’incertezza e siamo privati della nostra libertà.
Chi vive nel mondo della disabilità ha già sperimentato tutto questo perché è la sua quotidianità. Siamo abituati a procedere ad una velocità diversa dal mondo degli altri e abbiamo sviluppato delle grandi virtù. La pazienza prima di tutto e, poi, la capacità di adattarci al dolore e a una vita che improvvisamente, senza avviso, cambia inesorabilmente e non è come la avresti immaginata e voluta.
Impari che il dolore e tutte le privazioni a cui siamo costretti, non impediscono di vivere e, in una vita in cui non avresti mai voluto trovarti, afferri ciò che di positivo esiste in una simile esperienza.
In tutto quel tempo passato in ospedale, infatti, ho imparato e conosciuto un altro mondo.
Ho imparato a osservare e conoscere di più gli altri, ascoltando la loro sofferenza e le loro preoccupazioni. Ho stabilito rapporti umani con persone anche molto diverse da me alle quali non mi sarei mai avvicinata e mi sono accorta quanto la condivisione di un’esperienza così particolare unisce profondamente mondi e culture molto distanti.
Ho avuto il tempo di studiare più a lungo me stessa per inventare di nuovo la mia vita.
Ho accolto il mio dolore senza paura con la consapevolezza che farà sempre parte di me e, quindi, ho provato ad accettarlo per trasformarlo in energia. Ho apprezzato la solitudine perché è una pregevole compagna per ordinare i pensieri.
Al tempo del coronavirus forse mi sento più compresa, perché ci ritroviamo tutti sospesi in un tempo che ha dilatato la sua durata. Quando, però, per gli altri tutto sarà finito e ritorneranno a vivere nella normalità, noi continueremo nella nostra “diversa normalità”; continueremo ad avere difficoltà a trovare un mondo di socializzazione soprattutto per i nostri figli, continueremo a vivere nell’incertezza del futuro e, soprattutto, nell’angoscia del “dopo di noi”.
Al tempo del coronavirus soffriamo tutti per una libertà e una socialità perduta e sentiamo un gran bisogno di abbracciare il mondo, di sentirci uniti e vicini. Allora ci immergiamo nei social, video chiamate, didattica on line.
E qui si percepisce di nuovo la differenza che separa noi dagli altri: la didattica a distanza per i nostri figli disabili. Soprattutto per quelli che hanno una disabilità grave e per grave intendo tutti quei ragazzi con un quadro neurologico molto compromesso, che non possiedono la parola, che la loro unica possibilità di comunicazione è lo sguardo, che vivono su una carrozzina.
Certamente la scuola è la prima volta che si trova ad affrontare una situazione come questa ma ancora una volta perde l’occasione di essere inclusiva davvero, in quanto non dispone di strumenti o idee diverse e si illude che anche i nostri figli possano seguire le lezioni on line. I nostri ragazzi hanno bisogno di tempo, ordine, non sovrapposizione di stimoli, parole scandite lentamente e con chiarezza, ripetizione di uno stimolo, ausili diversi.
Per quanti sforzi possa fare l’istituzione scolastica, questa fondamentalmente ruota intorno ai normo dotati e impiega le sue energie per loro. I disabili sono una minima parte e, quelli molto gravi, ancora meno.
Alla fine degli anni ’70 abbiamo assistito all’abolizione delle classi speciali ma nel frattempo andava forse aumentata la competenza degli insegnanti di sostegno e, soprattutto, aperta la strada a una vera ed efficace collaborazione tra curanti e scuola. Credere che la scuola potesse superare la ghettizzazione delle scuole speciali è stata un’illusione o un’ipocrisia. In Europa invidiano il nostro sistema scolastico che unisce normali e disabili. Ma mi chiedo se sono mai entrati nelle nostre scuole dove esistono barriere architettoniche, dove non vengono rispettate le norme che riguardano il numero massimo di ragazzi in una classe, se presente un alunno disabile, dove mancano gli insegnanti di sostegno, dove non è garantita l’assistenza di base, dove mancano ausili specifici e differenti per la didattica.
A mio avviso, la vera integrazione si ottiene riconoscendo e accettando la diversità e programmando attività a misura. Non siamo tutti uguali. Pensare che un disabile possa utilizzare gli stessi strumenti degli altri o adeguarsi ai ritmi che la scuola impone, è voler nascondere la sua diversità. Oppure è solo più comodo. I nostri ragazzi non ce la possono fare e rimangono ancora più isolati.
L’inclusione per essere vincente, dovrebbe prevedere una reale fusione tra diverse esigenze. Non è sempre il disabile che si deve adeguare al passo degli altri, ma, almeno in qualche piccolo spazio della giornata scolastica, potrebbe avvenire il contrario. Sono, invece, davvero rare quelle attività costruite sull’esigenza di chi è diverso. Figuriamoci se ciò può avvenire a distanza, dove viene a mancare ciò che di buono la scuola reale offre; il contatto, l’interazione, un abbraccio, un sorriso così importante per tutti e ancora di più per i nostri figli.
E’ difficile e non ho la soluzione, ma non illudiamoci che ciò che è possibile per gli altri, sia fattibile anche per noi. Usiamo la fantasia e cerchiamo soluzioni diverse da quelle standard della lezione on line.
Non so se questa esperienza lascerà un segno in tutti coloro che si sono sentiti privati per un periodo davvero breve della propria vita della libertà, che hanno percepito l’angoscia per un tempo incerto senza poter programmare il proprio futuro, che si sono sentiti soli o hanno avuto il terrore della malattia.
Sicuramente lascerà un segno in tutti coloro che non hanno potuto assistere i propri cari nel momento della malattia, o peggio ancora, della morte. Così come lo lascerà in tutti quelli che hanno perso il lavoro o subìto un danno economico enorme. A loro va il mio pensiero nella speranza che, in un modo o nell’altro, tutti ritroveranno lo slancio per ripartire.
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