L’arma dello stupro è fatta della stessa sostanza della guerra
Troppo silenzio sull’abuso sessuale che "in tutti gli scenari di guerra e da sempre è una costante e non certo un fenomeno esclusivo della storia contemporanea" ...
Venerdi, 19/06/2020 - Il 19 giugno è la giornata internazionale contro la violenza sessuale nei conflitti armati, introdotta nel 2015 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite tramite la Risoluzione A/69/L.75, per porre fine a una pratica disumana e per onorare le migliaia di vittime della violenza sessuale nei conflitti.
La data scelta coincide con l’adozione della Risoluzione 1820 del 2008 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha riconosciuto la violenza sessuale come una strategia di guerra e come minaccia alla pace e alla sicurezza mondiali.
Nella Risoluzione si riconosce che lo stupro e altre forme di violenza sessuale possono costituire crimini di guerra e crimini contro l’umanità richiedendone l’immediata e completa cessazione da parte di tutti gli attori coinvolti in un conflitto armato.
“La giurisprudenza penale internazionale comprende nella definizione di 'violenza sessuale' nei conflitti non solo l’atto sessuale stesso bensì anche le offese verbali di carattere sessuale, lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata e qualsiasi altra forma di violenza sessuale direttamente o indirettamente collegata (temporalmente, geograficamente o causalmente) a un conflitto. La violenza sessuale è considerata anche un atto che rientra nel crimine di genocidio, in particolare negli atti materiali denominati “lesioni gravi all’integrità fisica e mentale dei membri del gruppo” e nelle “misure destinate a impedire la riproduzione del gruppo”. Nella giurisprudenza internazionale le forme più evidenti dell’intento di rimozione della capacità riproduttiva del gruppo sono la sterilizzazione forzata, il controllo forzato delle nascite, il divieto di matrimonio, la segregazione dei sessi, le mutilazioni sessuali e lo stupro inteso a provocare una gravidanza forzata.
L’art. 7 (2) par. (f) dello Statuto del Tribunale Penale per la ex Jugoslavia ha definito l’inseminazione forzata come “la reclusione di una donna sottoposta a stupro con lo scopo di alterare la composizione etnica del gruppo”. https://www.onuitalia.it/19-giugno-giornata-internazionale-contro-la-violenza-sessuale-nei-conflitti-armati/
Il percorso che ha portato alla definizione di violenza sessuale contenuta nella Risoluzione non è stato per nulla facile e tanto si deve all’opera fondamentale compiuta dai Tribunali ad hoc, (Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia e Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda) che vennero istituiti nei primi anni 90 del secolo scorso, quando i conflitti dell’ex Jugoslavia e del Ruanda scossero il mondo per la particolare efferatezza e per le indicibili violenze commesse; non a caso l’attenzione fu rivolta agli stupri di massa consumati in entrambi i paesi con premeditazione e finalità di annientamento delle donne, della comunità, di una intera parte della popolazione: una vera e propria arma di guerra. L’abuso sessuale in tutti gli scenari di guerra da sempre è una costante e non certo un fenomeno esclusivo della storia contemporanea, è altrettanto costante il pesante silenzio che per troppo tempo ha avvolto le storie e i traumi delle donne abusate, il dolore irreparabile delle comunità e delle generazioni a venire. Per troppo tempo la violenza sessuale nei conflitti è stata taciuta, negata, giustificata come danno collaterale o male necessario. A prova di questo vi è il fatto che, nonostante le numerose testimonianze riportate alla fine della Seconda Guerra Mondiale (anche il nostro Paese conserva intatta la ferita degli stupri consumati nel basso Lazio noti come “marocchinate” e quella meno conosciuta delle “mongolate” delle Valli Liguri e Oltrepò Pavese), nessuno dei due tribunali militari internazionali, istituiti a Tokyo e Norimberga per perseguire i crimini di guerra, ha riconosciuto e/o adottato condanne per reati di natura sessuale. Solo poco più di una anno fa (23 aprile 2019), il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha riconosciuto la violenza sessuale come tattica di guerra e strumento del terrorismo internazionale adottando la Risoluzione 2467 (2019): un importante tassello nel quadro normativo, nonostante contenga più di qualche incongruità in forma e sostanza.
Molti passi avanti sono stati fatti per la predisposizione di strumenti adeguati sul piano internazionale ma l’arma dello stupro è un crimine vecchio quanto la guerra stessa, come essa è strategico e subdolo, è lampo, è di trincea, è freddo, è civile, è etnico o di secessione, è di conquista e coloniale. E’ fatto della stessa sostanza della guerra e nella sua aberrante azione sceglie. La guerra è stata narrata in infiniti modi, indagate le cause, le conseguenze e le trasformazioni, la contrapposizione vinti/vincitori e l’antitesi amico/nemico; ma c’è un aspetto poco discusso sul quale vale la pena riflettere: la dimensione sondabile della “corporeità della guerra”.
La guerra recluta i corpi, “vede i corpi, li cerca, li usa e li abusa, sui corpi infierisce, quello che urge chiarire e riconoscere è che la guerra mette in gioco le identità sessuali e di genere, lo ha sempre fatto” (V.Muià, 2015, “Gli stupri di guerra nelle Valli Liguri e nell’Oltrepò Pavese: le “Mongolate”, in Stupri di Guerra e Violenza di Genere, a cura di Simona La Rocca, Ediesse).
La violenza maschile in guerra colpisce le donne di ogni fronte e di ogni appartenenza, perciò ha senso chiedersi come si possano leggere e comprendere gli eventi bellici senza chiamare in causa la dimensione sessuale che li costituisce e caratterizza (Deriu, 2008, I corpi in guerra, Multiverso,n.7).
È fondamentale tenere conto della differenza sessuale, è un cambio di prospettiva che ci restituisce il quadro completo di eventi e significati; cambia se si pensa ai soggetti che la guerra la fanno, cambia il rapporto tra i sessi nella violenza, cambiano valori, segni e significati, cambia la narrazione paradigmatica e archetipica.
Nella brutalità dei conflitti la violenza maschile contro le donne è trasversale e viene agita sia sulle donne del nemico (non nemiche ma del nemico!!!) sia per colpire l’opposizione politica interna, per fiaccare i movimenti di resistenza ma anche all’interno della propria comunità, molto spesso anche dopo la cessazione delle ostilità. Il corpo delle donne in guerra (e in ogni altrove) è trincea e campo di battaglia, territorio di conquista, bottino e “giusta ricompensa”; gli stupri, i matrimoni forzati, la riduzione in schiavitù, l’inseminazione coatta, le mutilazioni e la prostituzione forzata agiti dal coeso “corpo maschile” coagulato nell’esercito, nella fazione, nel gruppo, non sono altro che volontà di annientamento, controllo e umiliazione del corpo generativo delle donne nonché un “luogo” e una modalità di rinsaldare aspetti del maschile: una trasposizione in tempo di guerra di uno schema di rapporti che conosciamo bene anche in tempo di pace.
E’ stato così ed è così in ogni tempo e in ogni latitudine, questa è un’altra costante della guerra. Non ci devono sorprendere l’incredulità, il silenzio e la mancata elaborazione pubblica rispetto alla potenza distruttiva di questa arma di guerra sofisticata e chirurgica, quasi sempre il processo di elaborazione viene ostacolato dalla stigmatizzazione ad opera della comunità in cui le donne abusate vivono in alcuni casi addirittura a fianco dei loro aguzzini, con dentro il peso irreparabile della perdita del prima.
Se è vero che è la persona che vive la guerra e la racconta, a consentire la comprensione della guerra a chi vi è estraneo ( P. Brunori et al., 2003, Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia Erzegovina, Manni, San Cesario di Lecce), è vero anche che finché le donne verranno rese ‘neutre’, e perciò ‘neutralizzate’, mai potremo comprendere fino in fondo che da un punto di vista antropologico e identitario la guerra non ha lo stesso significato per gli uomini e le donne. (V.Muià, 2015)
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