U.S.A. - "Noi possiamo consolarci con le 44 donne elette in Ruanda (oltre il 50% degli 80 membri del nuovo parlamento), ma in Occidente mettiamoci comode: c’è da aspettare"
Bartolini Tiziana Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2008
L’elezione di un afroamericano alla guida degli Stati Uniti ha un portato simbolico talmente potente che abbiamo stentato a rendercene conto, prima del fatidico 4 novembre. Eppure la nostra attenzione, più o meno consapevole, sulle presidenziali americane è stata catturata da molto tempo. Abbiamo infatti seguito tutti i passaggi delle primarie, che sono state molto sbrigative per il partito Repubblicano e, invece, talmente coinvolgenti per il partito democratico che ad un certo punto abbiamo temuto che i testa a testa tra la Clinton e Obama avrebbero potuto compromettere la vittoria finale dei democratici, sacrosanto epilogo dopo l’era Bush. Di quei mesi resterà indimenticabile il confronto/scontro tra due candidati che, per il loro essere ‘donna’ una e ‘nero’ l’altro, avevano già fatto di queste elezioni un passaggio storico per gli U.S.A. e non solo. La possibilità che ha avuto una donna di concorrere, e la potenza stessa della sua candidatura che ha tenuto testa, Stato per Stato, a quella di Obama, ha persino aperto la strada della eventuale vicepresidenza repubblicana alla discutibile Sarah Palin. Se da un lato apprezziamo la cifra di per sé rivoluzionaria della vittoria di Barack Obama, primo uomo di colore alla Casa Bianca e, soprattutto, speriamo che la sua presidenza sia all’altezza delle aspettative di tutto il pianeta, d’altra parte non possiamo non osservare che l’America di cui apprezziamo la capacità di autorinnovarsi tra i due ha scelto un uomo. Ma davvero il cambiamento, la diversità di cui Hillary si sarebbe fatta latrice spaventava di più? Oppure - altra possibile lettura - Obama è stato migliore interprete del cambio di marcia richiesto? Per le sue origini, per il suo non essere parte di quell’establishment di cui invece Hillary è espressione. Varrebbe la pena di capire bene le dinamiche che hanno determinato le scelte di milioni di persone, e varrebbe la pena di capire, anche, come gli americani sono arrivati ad avere quelle possibilità di scelta: sarebbe molto utile alle donne ancora alla ricerca del bandolo della matassa. E dunque, si diceva, la potenza simbolica di questa nuova realtà è talmente forte che, prima, era stata come rimossa è, dopo, è esplosa con una potenza d’urto che ha scosso l’intero pianeta. Queste elezioni, però, ci dicono anche altro. Obama in termini di voti ha superato di poco McCain e alla sua vittoria hanno concorso in modo determinante, oltre al variegato mondo dei non bianchi, i giovani e le donne. Dunque mentre l’America profonda - nonostante le guerre, la crisi, i fallimenti delle banche, le case sequestrate, la povertà e la disoccupazione crescente - ha incredibilmente riconfermato in modo massiccio la fiducia al partito repubblicano, Obama ha vinto conquistando nuovi elettori con la forza del suo messaggio. Ha dato loro una speranza, interpretando la politica della migliore tradizione e portando davvero alla guida del paese più potente del mondo ‘l’altra America’. Quante donne ci sono, in quella America lì, che possono pensarsi come future presidenti? Avranno 4, forse 8 anni per studiare e chissà se la ‘roccia’ Michelle non si predisponga a succedere al marito. Intanto, e un po’ ci dispiace, pare abbia deciso di lasciare il suo lavoro per dedicarsi pienamente al ruolo di First Lady. Ed è già cominciato il tormentone: somiglia a Hillary, ma senza i tailleur, o a Jacqueline Kennedy ma con più sobrietà? Lasciamo il quesito a chi se ne intende. Noi possiamo consolarci con le 44 donne elette in Ruanda (oltre il 50% degli 80 membri del nuovo parlamento), ma in Occidente mettiamoci comode: c’è da aspettare.
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