Non capita spesso di presenziare a un incontro “istituzionale” e uscirne entusiasta. A me è accaduto l’8 marzo scorso, festa della donna.
A Torino, dove abito, il seminario “Io parlo e non discrimino” era organizzato in grande stile nell’Aula magna dell’Università presso la Cavallerizza, da ben cinque istituzioni (Città di Torino, Città metropolitana, Regione Piemonte, Consiglio regionale del Piemonte, Università degli Studi di Torino) che hanno presentato una Carta di intenti in cui si impegnano “ad adottare progressivamente corrette linee guida linguistiche per eliminare ogni forma di discriminazione di genere negli atti, nella documentazione, nella modulistica e nella comunicazione”.
Le istituzioni daranno il buon esempio, ma gli obiettivi della Carta sono condivisibili anche da aziende e soggetti privati, che hanno la possibilità di sottoscriverli, nel caso che “vogliano impegnarsi in questo percorso costruttivo per superare le differenze linguistiche che ostacolano una piena parità fra uomo e donna”.
Lodevole iniziativa. Anche perché a tutte le persone intervenute è stato offerto un pregevole lavoro: un librettino uscito a cura dell’Università di Torino intitolato Un approccio di genere al linguaggio amministrativo. Lo so che il titolo non dice proprio niente a chi non abbia alle spalle studi specialistici, ma assicuro che, solo a sfogliarlo, chiunque abbia avuto a che fare con la linguistica si sente solleticare i neuroni.
Ma quello che ha fatto proprio vibrare le sinapsi delle donne e degli uomini presenti nella grande sala gremita è stato, a metà mattina, il primo dei tre interessanti interventi di esperte che erano in programma, quello di Cecilia Robustell (link)i: linguista, referenti per l’Accademia della Crusca e docente all’Università di Modena e Reggio. (intervista di Loredana Cornero a Cecilia Robustelli)
Ne conoscevamo già le idee, espresse nel manuale (disponibile in rete) intitolato Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, ma ascoltarla di persona è stata un’esperienza capace di convincere anche le persone che precedentemente, accontentandosi di un certo apparente ma in realtà superficiale “buon senso”, avessero concluso, di fronte a temi simili, che “ci sono cose più importanti”. La relatrice è stata in grado di attenersi alla rigorosa scientificità della sua posizione ma anche di uscire in modo brillante dal tecnicismo, mostrando come la lingua possieda regole rigide, che non possono piegarsi a esigenze estranee. Non è possibile, per esempio, scegliere di definire una donna “assessore” o “ministro”, senza rischiare di creare mostri linguistici come quelli che abbiamo letto in certi titoli di quotidiani, come “Il ministro è incinta” o, peggio, “Il marito del Ministro”,ieri solo spiazzante e ridicolo ma oggi, alla luce della nuova legge sulle unioni civili, decisamente foriero di ambiguità.
Esempi simili possiamo trovare nelle targhe stradali delle città italiane, dove capita di imbattersi in diciture sorprendenti come “via Palma Bucarelli storica dell’arte e direttore …” vista a Roma. Oppure “piazza Gae Aulenti architetto e designer”, affissa a Milano, o “Giardino Madame Curie scienziato”, a Torino. Quest’ultima sembra particolarmente illuminante, dal momento che il termine “scienziata”, al femminile, è d’uso comune, ma evidentemente non è sembrato adatto, a chi ha apposto la dicitura, per una donna Premio Nobel.
Una riprova del fatto che a governare fenomeni linguistici di questo genere non è una supposta insufficienza della lingua e nemmeno, come si sente dire, un problema estetico, di parole che “suonano male”, ma una (consapevole o meno) scelta ideologica.
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