"...la divisione tra Olp e Hamas è definitiva. Lo hanno riconosciuto anche le donne di Gaza..."
[…] Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente più di una piccola e povera città che resiste. Quando ci chiediamo cos’è che l’ha resa un mito, dovremmo mandare in pezzi tutti i nostri specchi e piangere se avessimo un po’ di dignità, o dovremmo maledirla se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi. Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo. Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla. Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere. In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori. Se la incontrassimo in sogno forse non ci riconoscerebbe, perché lei ha natali di fuoco e noi natali d’attesa e di pianti per le case perdute.1
Sono passati decenni da quando Mahamuoud Darwish ha scritto questi versi e il dramma palestinese ha attraversato fasi rimaste opache anche a chi si è fatto parte solidale delle sconsiderate iniquità seguite al 1948.
Scrivere di Gaza nell’estate 2023 mentre Israele si trova in una delle peggiori fasi politiche e, non avendo una Costituuzione scritta, distrugge le garanzie fondamentali dello Stato di diritto e continua periodicamente a scambiare con Gaza missili non innocui e spara anche nei Territori Occupati (che non si chiamano “occupabili”) colpendo vittime maldifese dall’informazione internazionale che ormai si affida alle conseguenze del Patto di Abramo.
Le donne non hanno via d’uscita se non parlare con le amiche della diaspora: tutto è sempre nelle mani degli uomini, nonostante la loro volontà di opporsi al sistema prima che le bambine diventino uguali ai maschi.
Oggi la divisione tra Olp e Hamas è definitiva. Lo hanno riconosciuto anche le donne di Gaza – testimone Alessandra Mecozzi- che nel primo Forum Internazionale delle Donne svoltosi l’anno scorso a cura delle molte associazioni femminili di Gaza City che denunciava, oltre all’oppressione israeliana, il controllo di Hamas. La direttrice del conservatorio, sostenuto dai contributi dell’associazione italiana Cultura è Libertà – impossibilitata a ricorrere ai finanziamenti europei per l’obbligo di esibire indirizzi non collegabili a luoghi indicati come terroristi - denunciava l’aumento delle restrizioni, “che il governo di Hamas oppone alle iniziative pubbliche. Come i divieti di esibirsi per le bambine al di sopra dei 12 anni”.
La settantenne MariamAbu Dakka, veterana delle lotte, dava ragione alle giovani: guidino loro l’impegno: “chi ha lottato tutta la vita per la libertà sua e della sua terra crede che sia necessario un femminismo globale perché - per cambiare i sistemi di potere, tocca alledonnefarsi protagoniste della liberazione della Palestina”. Questo Forum “femminista” aveva dichiarato il pensiero delle donne politica generale. Perché violenza patriarcale e guerra vs arte e cultura femminili dice qualcosa sul rifiuto delle donne di considerarsi vittime. Il separatismo politico è voluto dall’inferiotizzazione delle donne: in uno dei workshop nella sede dell’associazione Creative Womens, Nasreen, una che non aveva ancora vent’anni, ha chiesto e ottenuto che gli uomini uscissero dalla sala: “nessuno può permettersi di non farmi realizzare i miei sogni. Io cerco di operare il cambiamento che voglio vedere”. Non è vetero femminismo: Nasreen non si è arresa alla guerra, alla morte di sua madre in un attacco israeliano ed è stata protagonista dell’iniziativa Trauma free Gaza per liberare le menti.
Il covid ha peggiorato le cose, chi ha avuto la casa distrutta non ha indennizzi, manca il lavoro, i genitori non possono far studiare i figli, l’Unrwa fa quello che può, ma al popolo delle donne pesa la dipendenza dagli uomini da Hamas e le donazioni internazionali non bastano se si è in loro controtendenza. Prevalgono le esigenze quotidiane di mandare avanti la famiglia, lavorare, superare la claustrofobia e la paura dei bombardamenti che hanno colpito anche la sede di Wann, we are notnumbers, (subito ricostruita); ma anche migliorare la conoscenza tecnologica, studiare e sostenere i tentativi creativi della comunicazione cambiando la narrativa: parlare al mondo senza intermediari.
Perché l’assedio di Gaza è sempre quello storico, ma la narrazione internazionale esclude le donne mentre la loro cultura politica è la carta da giocare per una salvezza sempre più ardua. Dando per scontato che la sola risposta degli uomini – non diciamo dei partiti, perché a Gaza il regime è unico – è la guerra e la fabbricazione/importazione dei missili, la situazione è senza futuro.
L’Arabia Saudita ha progetti egemonici che passano per l’intesa con Israele e la Cina ha portato ad una strana intesa MbS sunnita con Iran sciita: nessuna tutela per gli interessi di Gaza. Che, comunque, continuerà ad esserci. Ormai definitivamente scollata dall’Olp (le ultime elezioni in seno all’Autorità Palestinese risalgono al 2005/06) e da allora il vecchio Abu Mazen continua a tenere in piedi l’eredità di un Arafat dimenticato. D’altra parte né l’Onu né le sue innumerevoli Risoluzioni (disattese) contro Israele, né gli Usa strettamente legati agli arabi del petrolio, né l’Europa che nemmeno in onore della memoria degli accordi di Oslo ha mai tentato di farsi mediatrice.
Il femminismo non è la bacchetta magica. Ma le donne di Gaza fanno parte dell’umanità. Ma non va silenziata la voce definita debole perché non ritiene “forte” la politica della risposta violenta a silenziari i problemi reali.
Da lontano / vi scrutiamo / impotenti:e null’altro sappiamo / che invocare l’elemosina della pace./ Noi che veniamo da lotte di secoli / condotte per tutte le terre / infinite di questo globo / rotondo in cui dato a noi / fu di vivere / e sembriamo ora solo / capaci di educarci all’indifferenza / o scrutare allibiti.
Al primo Forum Internazionale delle Donne tenutosi a Gaza del 20 ottobre 2022 condiviso da donne palestinesi e italiane. Tra le associazioni femminili locali: oltre a rappresentanti dell’Union of Palestinian Women’s Committes, Association for women and child protection (AISHA); Creative Womens; Democracy and workers’ Rights Center (DWRC); Palestinian Development Women Association (PDWSA); Union of Palestinian Women Committees (UPWC); We’re Not Numbers; Girls in Green Hopes Gaza. Con loro il Centro italiano di scambio culturale “Vik” diretto da Meri Calvelli, e le italiane Gaza Free Style, ACS, Mutuo Soccorso Milano e Casa delle Donne di Roma.
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