Il 10 e l'11 aprile in Puglia terzo convegno internazionale a partire da Storia, Memoria, Diritti, Saperi delle Donne per un 'nuovo umanesimo'
L’ospitalità e l’accoglienza appartengono, certo, alla storia e alla cultura dei popoli del Mediterraneo. Fanno parte delle pratiche religiose e culturali antiche, della tradizione greco-romana, e poi greco-bizantina del cristianesimo. L’ospite, fin dall’antichità, nell’universo mediterraneo è sacro, va accolto, rifocillato, curato. Quando il viaggiatore, ai tempi del Grand Tour, domandava ospitalità - sia presso le famiglie aristocratiche e borghesi (a cui veniva segnalato da qualche parente o conoscente residente a Napoli) sia, in maniera occasionale, presso la povera gente - era ritenuto persona sacra, da accogliere, rispettare, proteggere. In assenza di una diffusa concezione sacrale dell'ospitalità e di una cultura dell'accoglienza, in pochi avrebbero potuto portare a termine il loro viaggio in una terra lontana, difficile da raggiungere e da percorrere.
«La marginalità è un luogo di radicale possibilità uno spazio di resistenza. Questa marginalità che ho definito spazialmente strategica per la produzione di un discorso contro egemonico è presente non solo nelle parole ma anche nei modi di essere e di vivere» (hooks,1998 ). Collocarsi al margine significa contribuire a produrre una narrazione alternativa, in uno spazio di riconoscimento che diventa «un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi». I margini rappresentano altresì i confini, intesi non come una distinzione che si traduce nello spazio, una divisione tra un “noi” e un “loro”, ma un punto in cui posizionarsi per cambiare prospettiva. In “La terrazza proibita”, anche Fatema Mernissi (2005) offre un esempio di come sia possibile osservare e decostruire la narrazione dominante a partire dai confini, reali e simbolici, attraverso cui è stata storicamente costruita l’immagine della donna.
Molte donne sono state escluse storicamente dai processi di riconoscimento (de Beauvoir, 1976), di chi è stato escluso dalle narrazioni dominanti sulle migrazioni, di chi si colloca al margine, ovvero i soggetti postcoloniali (Loomba, 1998), le donne migranti. La conversione di sguardo femminile , diventa quindi uno strumento necessario all’interno di un cambiamento necessario, ed è la base per un percorso di ricerca, che è soprattutto esercizio di esperienza dell’altro.Fare esperienza coincide con l’assunzione di responsabilità per la propria biografia nel senso in cui «fare esperienza di sé e sviluppare la capacità e sensibilità per fare esperienza dell’altro vanno in un certo senso di pari passo» (Siebert, 2003). La riflessione postcoloniale quindi, permette di far emergere con forza la necessità di dar voce a chi è stato storicamente escluso dalla narrazione dominante, ovvero le stesse soggettività migranti all’interno delle quali è storicamente rintracciabile ciò che è stata definita invisibilità simbolica e reale delle soggettività migranti femminili. Fare esperienza di sé e dell’alterità è un esercizio che diventa un processo chiamato da autrici – come bell hooks o Paola Tabet – un processo di “disimparare”, di mettere in discussione categorie e concetti e «in un certo senso, come suggeriscono i cultural studies ed i postcolonial studies, occorre scoprire le radici dei sistemi di conoscenza moderna nelle pratiche coloniali, cominciando con un processo per disimparare attraverso il quale possiamo mettere in crisi le verità ricevute» (Siebert, 2003).
Per i popoli del Nord e del Sud del Mediterraneo si tratta, nell'immediato, di far fronte insieme ai cambiamenti internazionali e alle incertezze da cui sono attraversati, non più ognuno per sé e nel rispetto delle reciproche differenze. Nel lungo periodo, è importante sviluppare il sentimento e la percezione di un destino comune. Il dialogo tra i popoli e le culture è quindi chiamato a giocare un ruolo decisivo nella costruzione di uno spazio euromediterraneo "dotato di coesione e di senso". Un tale dialogo dovrà pertanto avere i nostri studi e le nostre ricerche anche con uno sguardo di genere.
La condizione femminile è una fondamentale chiave interpretativa della realtà euromediterranea e delle sue forze messe in campo. Viene utilizzata nel sostenere questa o quell'altra tesi, nel fare o non fare una guerra, nel concedere o meno diritti culturali a una data comunità, diventa una fondamentale chiave interpretativa della realtà e delle forze in campo.
I diritti delle donne del Mediterraneo non sono tutti uguali e le stesse non vivono uguali condizioni. Nel bacino mediterraneo civiltà, culture, tradizioni e ordinamenti giuridici si incrociano intorno alla donna, fanno sintesi, confliggono. Francia, Spagna, Italia hanno fatto passi in avanti nell’emancipazione della donna, pur persistendo forti retaggi culturali, soprattutto in Italia. I Paesi dell’Est della zona adriatica, sono usciti da una economia collettivistica e dalla negazione di parte dei diritti di libertà che apparentemente li rendeva tutti uguali che dopo il crollo del muro di Berlino ha portato la donna a diventare merce da vendere. Le donne in Egitto, piuttosto che in Algeria o Marocco, così come le donne che hanno lasciato questi paesi per emigrare in Europa, sono oggi espressione paradigmatica di quell'ampio dibattito sui diritti umani all'interno del quale si giocano le interconnessioni e i conflitti tra locale e globale, si giustificano e si fanno guerre, si rivendicano identità oppositive e contrastanti.
D'altronde come Seyla Benhabib scrive: "Da quando le società e le culture umane hanno interagito e si sono confrontate tra loro, la condizione delle donne e dei bambini e dei rituali del sesso, del matrimonio e della morte hanno occupato un posto speciale nelle interpretazioni interculturali".
Dobbiamo uscire dagli stereotipi il che significa ribaltare immagini consolidate consolatorie, affermare un’identità del fare, rivendicare, con convinzione, un posto di centralità e di essenzialità. Il Mediterraneo potrà contrastare e vincere la visione economicistica dell’Europa franco-tedesca se riuscirà a declinare e ad affermare termini come bellezza, accoglienza, solidarietà, se farà capire che è la culla della civiltà europea .
Ricordava Alvaro nel suo Viaggio in Turchia, che conserva tratti di attualità, che nel mediterraneo non esiste un palmo di costa è senza storia e che «ogni uomo ha per l’altro uomo la curiosità del vicino, e dietro ognuno involontaria l’eco degli incontri e delle rivalità e delle guerre, che a turno ognuno di questi popoli ebbe un’egemonia e una discendenza». Nello stesso tempo, oltre a segnalare rivalità e guerre, recuperava la bellezza dell’accoglienza: «Quella solidarietà in cui non esistono sottintesi, era una bellissima cosa, e significava tutti i rapporti e le relazioni del Mediterraneo, dove basta essere della stessa lingua per avere un legame».
Potremmo parlare a lungo di un mare che è bellezza, ricchezza, paesaggio di città bellissime, di piccoli incantevoli villaggi lungo le coste, dove ancora, nonostante un turismo spesso di evasione e di invasione, nonostante un’ideologia turistica che ha trasformato anche un universo popolare, povero, ma dignitoso, le popolazioni continuano a parlare di fatica e a praticare solidarietà. E però – nel periodo delle grandi migrazioni, della pandemia, delle crisi climatiche – il Mediterraneo deve recuperare anche la sua essenza, quella di essere universo di terra e di mare, terra tra due mari. A dispetto di tante astrazioni e tentativi di inventare un Mediterraneo da contorni precisi, dalla storia compatta, dalla geografia unitaria, pur essendo tante le somiglianze, dovute alla geografia, alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine, sono tante anche le differenze. L'attenzione è stata rivolta soprattutto al mare, ai mari, ai miti, marini, alla Sirene, ma si è trascurato il fatto che Mediterraneus (è sempre Matvejevic’ notarlo) indica uno spazio sul continente, in opposizione al termine maritmus.
Col sostantivo mediterraneum si indicava l'interno dei vari territori. Di Ulisse, eroe dai mille volti, del ritorno e del non ritorno, della nostalgia della patria e dell'altrove, è stato uomo di mare e guerriero, ma anche pastore e contadino. Il Mediterraneo dall’antichità ad oggi è stato luogo di uomini delle terre che si affacciano sul mare. Braudel comincia la descrizione dell’ambiente, dei paesaggi, delle produzioni e delle culture del Mediterraneo nell’età di Filippo II, proprio partendo dall’interno. «Innanzitutto le Montagne», ovunque presenti intorno al mare, poi gli altopiani e le pianure fino a giungere alle coste e al mare. La montagna ha una primogenitura geografica, ma anche storica, perché la vita montanara sembra sia stata la prima vita del Mediterraneo. Tra gli innumerevoli vantaggi la montagna ha anche quello di offrire risorse diversissime, dagli olivi, gli aranci e i gelsi dei bassi pendii, agli alberi da frutto, agli ortaggi delle colline alle foreste e ai prodotti del sottobosco delle zone più alte. Alle colture si sono aggiunte i guadagni derivanti dall’allevamento, dalla pastorizia, dalla caccia. Non solo i paesi dell'interno, i paesi arroccati, i paesi presepe, ma anche le città di mare, le coste, le colline sono vissute grazie a pluralità di produzioni, di colture e di scambi. Riproporre, riguadagnare, ripensare un’etimologia antica e una storia interna e profonda, non ha la pretesa di contrastare soltanto una visione parziale che tende ad identificare Mediterraneo con mare, sole, spiagge, frutto di una logica turistico-vacanziera di maniera, con proclami pubblicitari di basso profilo. C’è una ragione più fondata, motivata, oserei dire politica, in questo richiamo all’etimologia, alla geografia e alla storia ed è che quel Mediterraneo, il Mediterraneo dell’interno è a rischio di estinzione.
Il fenomeno è noto: riguarda tutte le aree interne dell’Italia e di altri paesi del Mediterraneo. Abbiamo visto come l’abbandono dei paesi dell’interno - è una costante della storia del Mezzogiorno fin dal Medioevo, bene documentabile in epoca moderna e contemporanea. Oggi il fenomeno assume dimensioni più vistose e diverse dal passato. E non si tratta tanto di guardare ai numerosi paesi e borghi abbandonati nel corso del secolo appena trascorso, spesso in anni a noi recenti – soprattutto a partire dagli anni Cinquanta a causa delle ripetute alluvioni e degli spostamenti lungo le coste o fuori dalla regione, con il secondo grande esodo – ma di osservare e considerare un processo in atto, lo svuotamento progressivo di interi paesi, il rischio di cancellazione di decine di comunità. Il paese lasciato, quello della rabbia e del sogno, della fuga e del ritorno è vuoto. Giorno dopo giorno nei paesi dell’interno vengono chiuse scuole, uffici postali, presidi delle forze dell’ordine, per non dire della chiusura annunciata di molti ospedali. E i centri non del tutto abbandonati hanno al loro interno zone, vie, case vuote, deserte, in rovina. Lo svuotamento coincide paradossalmente con eccesso di cementificazione, per costruzioni pubbliche e private troppo spesso alzate al cielo e lasciate incompiute, aperte, sventrate.
La crisi, la fine, la dispersione dei paesi arroccati, dei “paesi presepi” dove per secoli si sono svolte le vicende delle popolazioni ha tante cause, a cominciare dall’emigrazione e dallo spostamento a volte necessario, a seguito di catastrofi, terremoti, alluvioni, a volte pretestuoso, interessato. Tuttavia, sono state le scelte dei gruppi dirigenti del periodo postunitario, del fascismo, del dopoguerra, degli ultimi decenni a a provocare una vera e propria desertificazione. Non bisogna tacere della responsabilità degli abitanti. Fiaccati dalle partenze, asserviti dall’assistenza, privati di forme di economie tradizionali, diventano sempre più opachi, rinunciatari, rassegnati. Da soggetti di attività diventano soggetti assistiti che delegano ad altri. La delega a politici nazionali e locali incapaci di progettare, di impegnarsi in opere che vadano in controtendenza. E più i paesi si svuotavano più gli abitanti hanno accentuato i loro vizi, la loro litigiosità, la loro conflittualità. Se in passato la Calabria si è presentata, come ricorda con una bella immagine Predrag Matvejevic, “un’isola senza mare”, oggi bisogna evitare il rischio che resti un’isola senza un retroterra con cui comunicare e dialogare. E infatti, se in passato le zone interne sono state lontane dal mare, oggi sono i centri sorti lungo le coste a presentarsi come distanti e separati da quei luoghi dove per secoli si è svolta la storia delle popolazioni, dove si è formata nel tempo la loro cultura e mentalità. Chi viaggia lungo le vie costiere della regione incontra aggregazioni di case indefinite e incompiute che rappresentano, per molti versi, l’estensione culturale e mentale dei paesi dell'interno, che diventano sempre più “paesi morti”. Molti nuovi centri costieri, frutto di colate di cemento che hanno distrutto spiagge e paesaggi, le nuove abitazioni, edificate talvolta come palafitte da moderni selvaggi, nascondono la vista del mare e rendono, diversamente dal passato, precario e incerto il rapporto dell’uomo con un mare apparentemente guadagnato. Le marine con le abitazioni nuove, senza intonaco, con i pilastri nudi di cemento, sono il luogo esemplare del non finito dei nostri giorni, delle rovine di una particolare modernità. I paesi della costa sembrano tante periferie di una città che non esiste. E quelli dell'interno, sempre più spopolati e tra loro isolati, si guardano da lontano e non convergono mai verso un centro, hanno tante linee di fuga che non trovano un punto d’incontro. I paesi hanno tutti una seconda vita altrove: nel passato, nell’interno, nelle Americhe, lungo le coste, altrove.
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