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La storia di Sara

La storia di Sara

Focus - Madri/3 - Il desiderio di maternità, il percorso della procreazione assistita. Finalmente la gravidanza e poi il sogno spezzato. Ringraziamo Sara per averci regalato il racconto del suo dolore

Sara Catania Fichera Domenica, 04/10/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2015

 Quando lo scorso 29 agosto - nel corso della Scuola estiva di politica delle donne di Befree - Tiziana Bartolini mi ha chiesto se volevo scrivere la mia esperienza di maternità per questo numero di “NOIDONNE”, all’inizio ero titubante: l’argomento è per me dolcemente-dolorosamente complicato ed è difficile scriverne in tempi brevi, in modo conciso e su richiesta, ma poi ho pensato che era l’occasione per riconnettere pezzi sparsi di alcune riflessioni e per non privare altre della mia esperienza. Da femminista, e da mamma di una bimba morta in utero nei pressi della data del parto, penso sia giusto e sano trasformare il dolore in messaggi politici, è questo un modo per procedere, comunque e oltre, e anche per dare corpo e vita a lei. Così ho scelto di scrivere il mio racconto e di farlo oggi perché è il mio compleanno, mi sembra così di intrecciare le fila di tre percorsi: io-figlia, io-mamma, io-“non mamma”-figlia, e perché ogni volta che parlo di Zoe per me è una piccola rinascita. Da bambina non mi pensavo mamma, volevo fare altre cose da grande; crescendo, lentamente rifiutavo tutti i ruoli considerati femminili e comunque, prima di capire se volevo procreare, volevo laurearmi, lavorare, avere una casa adeguata e una storia d’amore che mi sembrasse giusta per condividere un’esperienza genitoriale.



Così cominciai questo percorso solo intorno ai 40 anni; il desiderio doveva essere forte se scelsi di sottopormi a protocolli di procreazione assistita, che ritenevo invasivi da tutti i punti di vista. Per me la Legge 40 era insopportabile tanto quanto i metodi relazionali dei vari centri di procreazione medicalmente assistita catanesi, un vero concentrato di stereotipi sulle donne, la procreazione e la maternità. Così, dopo gli esami pre-concezionali, sono andata all’estero dove ho trovato professionalità e un forte senso di civiltà fra personale medico e paziente. Ho vissuto due gravidanze su tre tentativi, la terza si è conclusa con un aborto per morte dell’embrione in utero alla decima settimana e per assurdo, nel contesto fortemente gravato dall’obiezione di coscienza in cui viviamo, mi sento fortunata perché il mio ginecologo mi ha praticato il recuttage non sottoponendomi al dolore fisico e psicologico di un’espulsione fisiologica dell’embrione. Dalla prima gravidanza invece è nata morta Zoe, con un cesareo d’urgenza, l’8 dicembre del 2010.



Il mio corpo si era fatto casa diventando luogo di dinamiche impreviste ad ampio raggio. Ho sempre pensato che piuttosto ché sottoporsi a pratiche invasive sarebbe più giusto battersi per l’adozione ai e alle single.Tuttavia l’adozione non prevede il tempo, lo spazio e il luogo della gravidanza, come esperienza dei corpi, quei mesi di intensa attività, di scambio e dialogo continuo fra quei due corpi, un laboratorio del sé per ciascuna delle due: entrambe creature, entrambe creatore di sé e dell’altra. Uno spazio, quello dell’utero e un luogo, quello della gravidanza, “civile perché politico” dice Emma Baeri, e non il tempo statico dell’attesa come il patriarcato ci ha insegnato per invidia e per paura di questa fertile potenzialità dei corpi nati portatori di utero e ovaie, socialmente riconosciuti come femminili, corpi portatori di vita e morte insieme, morte come vita.



La nostra società rimuove costantemente la morte e non vi è alcuna cittadinanza per le morti perinatali, anzi, l’idea va cancellata, è un tabù, quasi una vergogna. Le donne e le coppie che subiscono una tale lacerante esperienza non sono supportate in alcun modo nell’elaborazione di un lutto che è doppio perché, oltre la morte in sé, va elaborata la brusca e imprevista frattura fra progetto e realtà . Ma per me è impossibile rimuovere un’esperienza così importante, quella piccola vita che ha abitato brevemente il mio corpo ne ha modificato profondamente struttura e capacità percettiva, regalandomi un’energia inusitata: vivo come una e vivo come due, e per due, ormai entro ed esco dal mio dolore con grande velocità, piango e rido insieme e, come mi ripete Emma, sperimento un modo imprevisto di governo della simbiosi.



A partire dalla mia storia mi fa un po’ paura l’avvento dell’utero artificiale, al quale però farei ricorso immediatamente se fosse già una realtà - le contraddizioni sostanziano la nostra esistenza - perché lo sento come espropriazione di una esperienza possibile e foriero di nuovi scenari di marginalizzazione, sfruttamento ed esercizio di potere sui corpi femminili. In tal senso rivendico la mia “isteria” come momento creativo di un altro corpo e di me stessa, come legame emotivo e sessuale con mia madre, e come espressione orgogliosa di un sé castrato dal patriarcato: penso alle lacrime, all’emozione, all’ansia come sentimenti che si possono liberamente esprimere, mentre il patriarcato ha prescritto che in certi contesti essi sono sconvenienti e fuori luogo. Col senno di poi posso dire che la prima tappa nell’elaborazione del mio lutto è stata guardare a lungo il corpo nudo di mia figlia fuori di me, carezzarla prima che la piccola bara fosse chiusa, pensarla viva dentro di me e, la sera precedente, quella doppia onda nel mio pancione governata da lei, un saluto forte, determinato, carnale: “ciao mamma, ci sono, ci sono stata”.



Sara Catania Fichera, 6 settembre 2015

 

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