...quanto avrei voluto già fin d’allora avere anch’io dita tamburellanti, dita inchiostrate, dita con impronte di carta copiativa. E perfino con impronte di nicotina...
La sputacchiera. Il racconto di Matilde Tortora
Tracce di qualche crimine, oppure di un sopruso patito, a volte pure di tutte e due le cose assieme io le scorgevo da bambina aprendo, per sventatezza che però non era per niente tale, la porta interna comunicante tra lo studio del nonno e l’appartamento dove stavamo noi.
Che cosa mi spingeva ad aprire a volte quella porta pur non del tutto spalancandola? Vi scorgevo persone là convenute, di essi vedevo che avevano dita con tracce d’inchiostro, di carta copiativa e quasi tutti dita con tracce di nicotina.
Io li osservavo dalla porta socchiusa, li ascoltavo parlare, in alcuni giorni erano in tanti, in altri giorni erano in pochi, a volte pure era solo uno. Dall’altro lato della grande scrivania stava il nonno, di lato a lui abbastanza discosta stava la segretaria al tavolino con la macchina da scrivere.
Io, se pure bambina, intuivo loro indosso, ai clienti, e quindi portati anche nello studio del nonno, batteri e virus assieme al racconto di cose paurose, coltre di fumo di sigarette, ammissioni di fatti gravi, necessità di essere scolpati, o urgenza di incolpare, di chiedere di ottenere giustizia.
In giorni stabiliti venivano anche giovani avvocati ad apprendere, per essi erano predisposti sedie bastanti nella stanza, erano in tanti a venire dall’avvocato noto per come sapeva condurre le cause in Tribunale, per la sua ospitalità e disponibilità e per i tanti libri dei maggiori giuristi perfino di fine Ottocento che aveva nelle tante scaffalature nello studio e che faceva loro consultare.
E anch’essi nel mentre apprendevano, nel mentre imparavano a divenire bravi avvocati anche loro, indulgevano al fumo.
Sulla grande scrivania ai due lati estremi c’erano, messe apposta per loro, due ceneriere che, a dire il vero, erano due lustre sputacchiere cui, tolto il piano superiore, s’erano fatte convertire in capienti ceneriere e che mai erano state usate nella loro destinazione iniziale.
Se poi c’era qualcuno, venuto allo studio e che il nonno intuiva essere indigente, si poteva scorgere l’avvocato, intenzionato ogni volta a fare il meglio per lui, tamburellare come sovrappensiero con le dita sul grande tavolo e bruscamente dire, nel momento del congedo, che per quella volta lì non ci sarebbe stato nessun bisogno d’essere pagato.
Le due ceneriere che mai erano state sputacchiere, o per meglio dire il loro contenuto, quando i giovani avvocati apprendisti andavano via, colme di cicche, erano poi destinate ad un uomo con pochi mezzi che aveva la passione per il fumo e da quelle cicche ne avrebbe derivato sigarette da fumare. Sarebbe venuto l’indomani mattina, ogni volta, a ritirarle. E pure lui mi capitava, qualche volta, di incontrare sul pianerottolo e l’odore delle cicche che si espandeva su per le scale, lo sentivamo poi arrivava fin su al mezzanino, che a noi bambini era, a buon motivo, vietato.
E mi domandavo allora, stornandomi dalla tentazione di salire e arrivare su al mezzanino, anzi stando accorta che i miei fratelli non vi salissero su, perché mai solo le cicche lasciate dai giovani avvocati erano destinate e non anche quelle dei clienti fumatori.
Però, ricordo bene, quanto avrei voluto già fin d’allora avere anch’io dita tamburellanti, dita inchiostrate, dita con impronte di carta copiativa. E perfino con impronte di nicotina.
Non vedevo l’ora di diventare grande, di avere dita così e d’imparare a fumare!
E, pure di potere avere accesso al mezzanino, scorgervi finalmente che cosa vi era dentro e non averne così tanta paura di guardare.
Quanto a quella porta, essa durante la nostra infanzia non fu mai chiusa o barrata, perché, dopo le ore di studio e quando il nonno era a fare le cause in Tribunale, era infine per noi bambini l’aprirla consentito per andare nell’appartamento dei nonni senza dovere uscire sul pianerottolo e senza dovere bussare, perché, noi eravamo bambini e al campanello, che stava abbastanza alto, non saremmo stati capaci di arrivare. E, tra l’altro, non fossimo tentati di salire di piano e spingerci fin su al mezzanino.
Immagine: Chicago, 1910, una sputacchiera in un’aula di Tribunale
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