Iraq - Rappresentanza istituzionale fissata al 25%. Ma da dove vengono le donne che siedono in Parlamento?
Dalla Negra Cecilia Lunedi, 18/07/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2011
Se le donne ottengono il potere, diventano come gli uomini? Le dinamiche rappresentative, gestionali e politiche, saranno alla fine le stesse? Dibattiti italiani, ma anche iracheni. Fattori che unificano le problematiche, che le rendono uguali a qualunque latitudine, sponda Nord o Sud del Mediterraneo, Occidente e Medioriente, senza distinzioni. Metti un convegno, organizzato negli spazi universitari di Roma, alla presenza di esperti di diritto italiani e iracheni; aggiungi donne (ma soprattutto uomini) che disquisiscono sulla condizione giuridica femminile nell’Iraq del 2011, comparandola alla nostra, e tra tecnicismi, leggi, codici e postille scoprono che le dinamiche, in fin dei conti, sono sempre le stesse. Si potrebbe chiamare universalità del diritto, riflessione su principi comuni, ri-concettualizzazione di alcuni valori assoluti in chiave post-coloniale e dialettica. Oppure, più semplicemente, prendere atto che la donna in quanto essere umano è attraversata dalle stesse dinamiche a prescindere dalle latitudini, e quei sistemi patriarcali che tanto arcaici ci appaiono da quaggiù altro non sono che il prodotto deviato di un capitalismo imperante. Che la violenza e la discriminazione possono assumere forme e significati differenti, ma la sostanza resta sempre la stessa. Quote rosa, rappresentanza, parità, violenza domestica, disoccupazione femminile, mentre il confine tra Italia e Iraq si assottiglia, mostrando una realtà se non sorprendente, quantomeno curiosa. Fine maggio, Università di Roma Tre: intorno al tavolo dei relatori donne col capo più o meno scoperto raccontano la loro condizione nell’Iraq della ricostruzione democratica, minoranze nella minoranza resa tale da un’apertura solo di facciata. Si confrontano intorno al tema centrale dell’incontro: la democrazia, che in Iraq e nel Kurdistan iracheno - ma anche in Italia - passa per il riconoscimento dei diritti delle donne. E in un’area geografica che ha subìto, nel corso degli anni, regimi e colonialismo, guerre e terrorismo, si scopre ciò che pareva evidente dall’inizio: che la democrazia non è stata esportata, perché compiuta non è nemmeno qui.
In confronto ad altri paesi mediorientali, le donne in Iraq hanno conosciuto una storia migliore: se non si è potuto parlare mai di piena uguaglianza con gli uomini, è da riconoscere però una storia radicata di lotta dei movimenti femminili già a partire dagli anni Cinquanta. Risale al 1958 la promulgazione della Legge 188 sullo Statuto Personale, di impianto laico, che pur non abrogando formalmente poligamia e ripudio li rendeva impraticabili, stabilendo il diritto all’educazione, al divorzio, alla tutela dei figli per le donne. Un lento declino poi, avviato negli anni Ottanta della guerra contro l’Iran, che arriva all’apice nel 2003, in seguito all’invasione statunitense del Paese. Si stabilisce il Governo ad interim (Coalition Provisional Authority – CPA) guidato da Paul Bremer, che abroga il Codice sullo Statuto Personale ed emana la nuova Costituzione. L’impianto è sciaraitico, e all’articolo 41 apre un tema centrale per le donne: il rinvio al diritto confessionale per tutte le questioni relative allo status personale. È la Sharia, con le sue diverse interpretazioni, che entra nella vita femminile e ne determina la condizione. Sulla battaglia intorno alla modifica di questo articolo si incentra il dibattito politico kurdo e iracheno, con letture e impostazioni distanti tra loro. Questione centrale in un paese – guidato dal secondo mandato di Nuri Al Maliki - in cui le donne rappresentano il 60% della popolazione, e sono costrette a sfidare patriarcato, fondamentalismo e maschilismo per poter esercitare i propri diritti.
Tra le voci principali che hanno animato il dibattito romano quella di Safia Taleb Al Souhail, liberaldemocratica e parlamentare irachena, che verso le lotte delle donne e i criteri di rappresentanza ha un approccio realista: “Se abbiamo ottenuto dei risultati – dice – bisogna combattere per difenderli”.
Nell’attuale governo iracheno il numero di donne che rivestono ruoli ministeriali è sceso a 2, e 8 anni dopo il crollo del regime di Saddam Hussein i seggi femminili in Parlamento si sono ridotti. Si sta tornando indietro?
Indubbiamente sì, anche se la donna in Iraq ha sempre rivestito un ruolo centrale. A differenza di altri paesi arabi l’Iraq ha avuto il suo primo ministro donna nel 1958, non parliamo quindi di una società arretrata. Durante gli anni del regime Ba’th il partito unico ha dato un forte impulso all’istruzione femminile, subordinandola però all’affiliazione al partito unico. Dopo il 2003 le cose sono cambiate, la donna oggi è a fianco dell’uomo nella costruzione del futuro, e sono stati ottenuti dei risultati. Esiste una quota di rappresentanza femminile sia kurda che irachena fissata dalla Costituzione al 25%, anche se le nostre richieste prevedevano il 40%. Le donne sono state scelte e votate dalla popolazione e hanno dato nuovo impulso alla politica del paese, ma non bisogna smettere di battersi perché la presenza femminile aumenti e non sia soltanto formale. Esigiamo che le donne siano parte integrante del percorso decisionale e politico del paese, continuiamo a chiedere il massimo per ottenere il minimo. Deve essere chiaro che non ci limitiamo a volere una fetta di torta: vogliamo decidere quale torta, e cucinarla.
Diversa la posizione di Houzan Mahmoud, attivista kurda irachena e rappresentante dell’Organization of Women’s Freedom in Iraq (OWFI). “La rappresentanza – sostiene – è solo apparente. Anche le donne vogliono il potere, e quando lo ottengono diventano parte del sistema”.
Houzan, come membro di un’organizzazione di base contesti lo stabilire per legge criteri di rappresentanza femminile.
Credo che la quota di rappresentanza sia semplicemente degradante per le donne, in Iraq come in qualsiasi altra parte del mondo. Se le donne rappresentano il 50% della popolazione questa dovrebbe essere la percentuale presente in ogni organismo della società. Ottenere dagli uomini una concessione non è democratico, è solo un gesto di facciata lanciato per dare l’immagine di un paese modernizzato. C’è poi la questione di chi va a ricoprire questo 25%: dovrebbero essere donne che hanno un legame forte con i movimenti di base e con la società, scelte da altre donne per la loro attività, non sulla base di proclami e assetti partitici. Coloro che hanno ottenuto il potere hanno finito per rendersene complici: abbiamo una costituzione basata sulla Sharia, leggi che consentono la poligamia: non è stato fatto niente per cambiare le cose, perché manca una visione femminista della lotta per la democrazia. Le donne in politica, in Iraq, sono diventate parte integrante dell’agenda patriarcale. Almeno noi non dovremmo essere naive: le donne hanno il diritto di ottenere la gestione del potere, ma il dovere di esercitarlo in modo diverso rispetto all’uomo.
Infine, qualche data: nel 1982 viene abolito il delitto d’onore. Nel 1996 viene introdotta la modifica alla legge che rende la violenza sessuale reato contro la persona, e non contro la morale. Il livello di rappresentanza femminile nel governo? Fermo al 16%. Questa, però, è l’Italia.
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