Martedi, 26/03/2013 - "nulla meglio della vicenda conclusiva della vita di Gesù Cristo si prestava a commuovere le folle incolte e, per rafforzare concetti e per meglio inculcarli nell'anima popolare, si ricorse al mezzo visivo, efficacissimo strumento in un discorso diretto agli incolti". Sharo Gambino.
il periodo della quaresima a Vibo Valentia, così come in Calabria, è molto sentito.
L’intera regione, infatti, diventa lo scenario ideale per le numerosissime manifestazioni che hanno come unico filo conduttore la “Passione e morte” di Gesù Cristo.
È proprio in questo periodo che, stranamente, il popolo calabrese si riscopre, almeno per un istante, davvero unito.
È un legame forte, spirituale, intriso di misteri e sangue, di pietà popolare e folklore.
Eventi, situazioni, gesti e parole che ad un pubblico non attento potrebbero sembrare arcaici e senza senso, si riscoprono come unico collante capace di tenere insieme i cocci di una società, quale quella calabrese, sempre più sgretolata.
È un patrimonio culturale immenso quello racchiuso nel “folklore” ( inteso come “concezione del mondo e della vita delle classi subalterne”A. Gramsci) calabrese, è quindi indispensabile, citando Raffaele Corso, “suscitare l’interesse pubblico e generale per quel nostro patrimonio meraviglioso che, nei costumi e negli usi, nei canti e nei proverbi nelle leggende e nelle manifestazioni artistiche, racchiude, in buona parte, i primi germi da cui si vennero svolgendo la grandiosità e la bellezza morale del nostro incivilimento[…]”. Fondamentalmente, dato il comune sfondo biblico, i riti della Pasqua si somigliano un pò tutti, certo, con luoghi, costumi e gradi di spettacolarizzazione diversi tra loro ma, comunque, legati da un codice prettamente simbolico che, una volta codificato, ne garantisce un'unica e uguale lettura.
L’importanza didattica degli eventi narrati si riscopre basilare, indispensabile, quale mezzo di acculturazione, non solo in ottica cristiana, delle masse. La spettacolarizzazione, drammatica, è fondamentale.
Se oggi, a duemila anni dalla morte, la rappresentazione dei momenti della passione-morte e resurrezione di Cristo riesce ancora ad essere momento vivo e intenso, fuori da ogni schema di mercato, lo si deve, soprattutto, al costante impegno delle Confraternite e dei suoi confratelli, ignari custodi di un passato e di un bagaglio culturale immenso che annualmente rivive.
'U Venneri Santu. (il Venerdì Santo)
Sono le 13:00 quando dalla chiesa, si ode uno sparo.
Puntualmente, dopo un’ora, se ne sentono due.
Alle 15:00 siamo quasi nei pressi della chiesa, con le “vesti”(tuniche) sotto braccio avvolte nel “maccaturi”(fazzoletto), quando gli spari diventano tre, a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro.
Tutto ciò che si fa ha un senso“gesti apparentemente inutili ai giorni nostri erano indispensabili nelle epoche passate.
nella cultura contadina a quest'ora gli uomini e le donne si trovavano nei campi a lavorare, così, per avvertirli dell'inizio della processione della Vare, veniva esploso un colpo alle 13, due alle 14,tre alle 15,quattro alle 16,cinque alle 17. Durante il venerdì santo infatti era infatti proibito suonare le campane, così gli spari servivano da richiamo: il primo era riferito ai confratelli che prontamente lasciavano le campagne e si recavano in chiesa per prepararsi, gli altri, invece, scandivano lo scorrere del tempo fino alle 17, ora in cui aveva inizio la processione.
“la divisa dei confratelli, per tradizione memorabile, è un camice bianco con cappuccio, con cingolo bianco[…]. Deve essere indossata da tutti nelle processioni e nelle cerimonie solenni, quale segno di appartenenza e di fraternità, di uniformità e di decoro, nel rispetto reciproco e nella comunione. Essa è uguale per tutti e non è ammesso che sia personalizzata con altri segni o fogge.”
Durante la messa, un momento molto importante è quello del “bacio della croce” che viene fatta scendere per essere baciata da tutti i fedeli presenti che, in un clima di evidente commozione, attendono pazientemente di lambire con le proprie labbra la statua, quasi come se stessero realmente d’innanzi al corpo di Cristo. Il momento è estremamente carico di enfasi, sono soprattutto le donne a giungere, talvolta in lacrime, sotto l’altare, quasi come se fossero loro le persone deputate a pregare, ad invocare protezione e perdono per tutti i componenti della famiglia o, semplicemente, per rievocare un lutto avuto in famiglia.Tutta la cultura popolare calabrese conferisce, informalmente, alla donna la responsabilità della preghiera, l’uomo ne è pressoché esentato, attore quasi marginale della rappresentazione liturgica.
Appena finita la celebrazione l’altare si popola di tuniche bianche, i portantini vanno a controllare la propria statua stringendone bene le viti che la tengono fissata sulla vara ( base in legno sulla quale poggia la statua).
Ognuno controlla quella in corrispondenza della propria Stanga, ovvero l’asta in legno che fuoriesce dalla vara e che poserà sulla spalla dei portantini.
Le Vare “sono statue policrome” del 1745 ca. del pittore e scultore insigne Ludovico Rubino, nato a Vibo Valentia nel sec. XVIII, veri e propri capolavori lignei che raffigurano Passione e Morte di Gesù Cristo.Il suono della tocca precede l’uscita dei confratelli e delle vare, quasi a voler richiamare l’ordine e le compostezza dei fedeli, seguono i confratelli più piccoli, tutti sulle orma dei padri, dietro una croce in legno portata da uno di essi.
Seguono i confratelli adulti, sempre su due file parallele, che non portano nessuna statua. È quindi il momento, per le varette, di solcare la soglia della chiesa secondo l’ordine cronologico che la rappresentazione stessa, delle statue, impone.
È da sottolineare come, la folla, accolga l’uscita delle statue con dei lunghi applausi, quasi a sottolineare, involontariamente, la teatrale drammaticità dell’evento.
Le statue sono: Il Cristo all'orto degli ulivi;il Cristo alla colonna; il Cristo deriso; il Cristo con la Croce; il Cristo Crocifisso; il Cristo morto; Maria Addolorata e San Giovanni.
Il volto afflitto dell’Addolorata sintetizza perfettamente il clima che si vive, il lungo manto nero e la spada di Simeone infilzata nel petto:
“Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”1.
È proprio la Vergine ad affiancarsi per prima al Cristo uscendo dalla chiesa con passo lentissimo, accolta dagli incessanti applausi Le statue ed i fedeli invadono così il centro storico della città.Durante il percorso sono soprattutto le donne a dare il cambio ai portantini sotto le statue, per voto fatto o per grazia ricevuta, quasi ad offrire la scarificazione del proprio corpo in cambio del perdono o in segno di eterno ringraziamento. È quasi un rendere pubblico il proprio dolore attraverso l’esposizione personale. È un tentativo struggente di alleviare le proprie pene attraverso il dolore fisico. Durante il traggito vi è lo svolgimento di spettacolari corse delle statue che fanno trattenere il fiato ai fedeli.
In una di queste Il Cristo morto percorre la discesa molto lentamente, posizionandosi al centro dell’incrocio.
Neanche il tempo di sentire un “Via!” che l’Addolorata e S. Giovanni si lanciano, in una corsa velocissima, girandosi con rapidità l’una di fronte all’altro a guardare il Cristo al centro.
Gli applausi, le urla e le lacrime dei fedeli sono un tutt’uno, è l’apoteosi della drammatizzazione. I confratelli invitano ad un momentaneo silenzio. Ecco che un confratello anziano, posizionato di fronte al Cristo, alza in aria il bastone del Priore, è il segnale che ordina alle statue di ricompattarsi, con un rapido sincronismo, per riprendere la processione. Riprendono gli applausi.
Una volta in chiesa si procede con la chiamata dei Santi ( teatrizzazione della predica di passione). Il mormorio di sottofondo si arresta nel momento in cui, il sacerdote, sale sul grande pulpito in legno posizionato alla sinistra dell’altare.
Sta per avere inizio quella che rappresenta, simbolicamente, la consegna, a Maria, del corpo senza vita del figlio.
La Chiamata si articola in tre momenti cruciali, chiamati Poste:
L’arte oratoria del sacerdote è indispensabile. I fedeli sono intensamente rapiti dalla narrazione delle ultime ore di vita di Cristo, che vengono abilmente alternati a fatti di vita quotidiana. La prima posta si conclude con un crescente pathos: “[…] vogliamo vederti o croce, vogliamo portarti come il cireneo, vogliamo contemplarti o arca di salvezza, vogliamo adorarti o albero glorioso, VIENI O CROCE SANTA!!!”. Tra gli scroscianti applausi un giovane confratello corre rapidissimo dall’altare fin sotto al pulpito, con la croce in mano. “[…] noi ti adoriamo e ti benediciamo, perché con la tua croce hai redento il mondo.”
il Sacerdote si ritira dal pulpito per qualche minuto, prima di procedere alla seconda posta.
la predica della seconda posta è ancora più intensa e porta alla chiamata della varetta del Cristo Morto: “[…] fu il seme di una nuova vita, VIENI O Gesù!!!” il Cristo, sorretto dagli affrontatari del Cristo risorto, arriva con una veloce corsa sotto il pulpito mentre gli applausi rendono incomprensibili le ultime parole del Sacerdote.La terza ed ultima posta è, senza dubbio la più struggente. La figura della madre è al centro di tutta la predica. I fedeli sono visibilmente commossi e i portantini della Madonna mettono la statua sulle spalle … in attesa … Folla, in quest’ultima posta, diventa parte integrante dell’apparato scenico. Le implorazioni della gente interagiscono con quelle del sacerdote. E in risposta alla gente che implora: “vogliamo la tua presenza o madre”, il sacerdote invoca: “VIENI O MARIA!!!”.
La corsa veloce della statua, che percorre tutta la chiesa, si conclude d’innanzi al corpo del Cristo che, il Sacerdote, consegna simbolicamente alla madre.
la lunga giornata è conclusa e mentre la gente va via, i confratelli rimangono in chiesa. Adesso si pensa già a Domenica.
Il Sabato è interamente dedicato alla preparazione delle statue per la Domenica.
Sono le 15.00 quando i confratelli arrivano in chiesa in un clima di gioia e di ansia, in attesa dell’Affruntata.
Le statue che saranno utilizzate il giorno seguente sono tre:Il Cristo Risorto; La Vergine del Rosario e San giovanni.
Si aspetta la la sarta, che dovrà ammantare la Vergine a “lutto”, applicando un manto nero a coprire quello azzurro della festa.La vestizione della Madonna implica un lavoro difficile, certosino, che in pochissimi sanno fare.
È fondamentale che la cucitura non sia ne troppo leggera, per non rischiare che il manto cada prima del momento preciso della svelazione, ne troppo forte, per evitare che non vi siano intoppi nella caduta del drappo nero”.
Per la tradizione popolare vibonese, infatti, una caduta non fluida del manto sarebbe da interpretare come un terribile presagio per l’anno a seguire, tremende catastrofi che si abbatteranno sulla città.
Fonti orali narrano di inclinazioni della statua e intoppi del manto negli anni che precedono eventi tragici, da terribili terremoti fino all’ingresso dell’Italia nella seconda Guerra Mondiale, ma chiaramente non sono provabili.
È invece storia recente quella del 2005, quando la statua della Vergine ebbe una forte oscillazione che portò alla caduta di un portantino, rischiando di far cadere la statua stessa.
Il 3 luglio dell’anno seguente, nel 2006, la città fu attaccata da una terribile alluvione che provocò tre morti e semidistrusse il quartiere marino della città.
Semplici combinazioni, o meno, la vestizione della statua implica un attenzione particolare. Di credenze e leggende il meridione d’Italia ci vive e non sarebbe giusto sminuirne l’importanza.
A tal proposito è giustificabile il boato di giubilo della folla al momento della svelazione, prima della fine della rappresentazione tutta.
Dominica i Pasca ( Domenica di Pasqua).Ogni statua ha quattro portantini, che rispondono alle direttive del Capo-spalla2.
La scelta, a differenza di altri paesi dove ancora oggi si pratica l’ “incanto”3, viene fatta secondo criteri di robustezza e di altezza( che deve essere pari a quella di coloro i quali sono già portantini della statua). La componente della familiarità, ovvero di aver avuto il padre o un fratello come ex portantino della medesima statua, è importante ma non vincolante.Ogni statua, infatti, ha esigenze fisiche diverse: quella della Madonna richiede una statura medio – bassa e una forza fisica non indifferente; stessi criteri anche per quella del Cristo Risorto che è sicuramente la statua più pesante; quella di San Giovanni impone una corporatura longilinea e un ottima preparazione atletica.
Non vi è un limite d’età, massimo o minimo, per l’idoneità né, tanto meno, vi sono dei limiti di permanenza sotto la statua stessa. La scelta di lasciare il ruolo è soltanto del portantino, salvo decisioni straordinarie della Cattedra, che dichiara espressamente la propria volontà di lasciare il ruolo affidatogli. In caso di rinuncia di uno dei portantini spetterà ai tre rimanenti, solo ed esclusivamente a loro, trovare un degno sostituto.Sono le 9:00 quando, insieme agli altri confratelli, facciamo una passeggiata lungo il percorso della rappresentazione.
La gente ci incontra, ci stringe la mano, ci da una pacca sulla spalla ma nessuno ci fa gli auguri. E nemmeno noi ce li facciamo.
La tradizione vuole che per i confratelli sia Pasqua soltanto dopo la fine dell’Affruntata.
Anche tra di noi c’è il tentativo di tranquillizzarsi a vicenda, i portantini con più esperienze lo fanno con i più giovani, ostentando una falsa tranquillità.
Si ritorna in chiesa dove ci si mette la veste in un insolito silenzio.La messa si conclude abbastanza velocemente anche perché i tempi sono quasi cronometrati, la Madonna infatti, per tradizione, deve svelare a mezzogiorno in punto. Sono circa le 11:20 quando il Cristo Risorto lascia la chiesa e, senza seguito di gente, si reca alla fine di via Terravecchia inferiore, in un vicoletto di corso Vittorio Emanuele III, teatro dell’iniziativa. Il passo dei confratelli è uguale, veloce e senza soste.
Passano pochi minuti quando esce dalla porta della chiesa la statua di S. Giovanni che, a passo molto rapido, va a posizionarsi al Majo, oggi piazza M. Morelli sopra corso Vittorio Emanuele III, anch’esso senza seguito di fedeli.
La scelta di quella che potremmo chiamare la location dell’evento, ovvero corso V. Emanuele III, non è stata casuale. Infatti oltre ad essere il corso principale della città fu sede dell’ormai dismesso Convento delle Clarisse, monache di clausura che potevano, così, assistere all’evento stesso.
È arrivato il momento, per la Madonna, di lasciare la chiesa e Il capospalla da l’ordine di mettere la statua sulle spalle.Il passo è lentissimo e, ad ogni incrocio(tre in tutto) si svolgono le Girate. La statua viene fatta girare al centro degli incroci alla vana ricerca del figlio.Sono le 11.47, la banda cessa di suonare, San Giovanni parte da P.zza Majo marciando per raggiungere il Cristo in via Terravecchia in quella che viene detta ‘A prima Juta4.Appena visto il Cristo Risorto, il Santo, si lancia in una lunga corsa di ritorno per portare la buona novella alla Vergine.San Giovanni e la Madonna si fanno un reciproco inchino a simboleggiare la discussione fra i due.
La Vergine non ha creduto alle parole del Santo e lo invia ad accertarsi di ciò che ha visto.
La corsa procede per la seconda juta, che da lo stesso esito della prima: il Cristo viene nuovamente visto dal Santo ma, al ritorno, nuovamente non viene creduto, rimandato per una nuova, l’ultima Juta.San Giovanni risale, questa volta insieme al Cristo, dietro di loro una folla interminabile.
Che le statue si stanno avvicinando lo si capisce dai boati della gente ma lo sguardo dei portantini è fisso sulla mano dell’invocatore, al suo via la madonna è già partiti e si immette velocemente sulla strada principale. A metà corsa lo svelatore tira il manto che cade senza intoppi, le urla sono assordanti.Giunta d’innanzi al Cristo la Vergine è ancora incredula e per tre volte ristà, facendo dei brevi ma veloci passi prima indietro e poi in avanti, per poi cedere alla realtà della resurrezione affiancandosi, dopo essersi girata, al figlio e a S. Giovanni.
È mezzogiorno, il trittico è ricompattato, l’affrontata è finita.Ora è il momento degli auguri, soltanto adesso può iniziare la festa.
Intimamente credo che ogni anno, attraverso l’Affruntata, la città intera risorge insieme al Cristo e lo si capisce in quell’abbraccio, vivo e intenso, che la avvolge alla fine della rappresentazione.
Indipendentemente dal credere o meno si vive un momento intenso in cui, la gente, si riscopre parte integrante di una comunità con radici culturali profonde.
Può partire la processione che riporterà le statue in chiesa, lungo il tragitto si ripete la corsa dei Quattru Puntuna e nello stesso punto in cui, giorno delle vare, si era presentato il Cristo Morto alla città, si ripropone, simbolicamente, la vittoria della vita sulla morte.
Le statue arrivano nel quartiere terravecchia, dai balconi si lanciano petali di rosa, confetti. Come ogni anno, tutti i confratelli, sostano per pochi minuti a casa della mamma di uno di essi che, per tradizione antica, ogni anno prepara le polpette di carne, quasi come segno di ringraziamento per il buon esito della manifestazione.Tutto è concluso, la gioia è ancora grande, il rito si è ripetuto.
La tradizione è ancora viva nella comunità vibonese.
Ecco, allora, che questa tipologia di condivisione dei riti della Settimana Santa rende, la stessa, quasi immune al germe consumistico che ha pressoché standardizzato quasi tutte le feste, religiose e non, riducendole a giorni ormai comuni, dove la cosa più importante è spendere, consumare, asservendo avvenimenti e ricorrenze ad uno pseudo e logoro globalismo imperante.
Il tutto favorito dall’ignara, quanto incosciente, complicità del popolo.
La rappresentazione folklorica, quindi, diventa e rimane, risolutivamente, il punto focale dell’avvenimento, tutto ruota intorno ad essa conferendo al culto e alla tradizione un valore connotante e fortemente oppositivo all’imposizione “globalizzatrice”.La tradizione si riscopre essere il cordone ombelicale che tiene l’essere umano imprescindibilmente legato, almeno con l’animo, alla “terra natale”. L’impossibilità di assistere, soprattutto per gli emigranti, alle manifestazioni tradizionali della propria cultura genera uno stato di incompletezza personale, una sorta di abiura della propria “primordiale” formazione, la menomazione del proprio essere, la sofferenza per la distanza si acuisce.
A tal proposito un dato di fatto si evince chiaramente: l’uomo senza cultura, la propria, non può vivere. Alcune rappresentazioni proprie della produzione culturale vibonese sono state esportate a Toronto, a Torino, ecc., creando una piccola “Calabria itinerante” atta all’irrobustimento del legame uomo – territorio. Potrebbe sembrare insensato assistere all’ Affruntata di Sant’Onofrio(VV) riprodotta in Piemonte o in Canada, sradicata dal contesto sociale originale e dai luoghi tradizionali. Il sentimento non sarà lo stesso per l’emigrante, che vivrà il ricongiungimento con la propria cultura.
La cultura tradizionale si riscopre, quindi, come componente essenziale dell’uomo, la sua assenza comporterebbe l’indebolimento e l’ “imbarbarimento” morale dell’individuo stesso. Più semplicemente: l’uomo senza la “propria” cultura non potrebbe vivere.
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