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La sapienza del corpo e la medicalizzazione

La sapienza del corpo e la medicalizzazione

Incontro con Barbara Duden - Invitata alla Conferenza Internazionale di filosofe organizzata dall’Università Roma Tre

Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2006

Prima di incontrarla non sapevo niente di lei, intellettuale e studiosa a livello internazionale, che ha condotto studi di enorme rilevanza. Mi riferisco, ad esempio, a quelli sulla genesi e formazione dei modi di pensare umani condotta, insieme a personalità quali Ivan Illich e Wolfgang Sachs, presso la Science Technology and Society Program dell’Università della Pennsylvania. Oggi vive e insegna Storia delle donne e Storia del corpo all’Università di Hannoover.
La mia ignoranza di partenza nei suoi confronti ha dato forse un significato in più a questo incontro, permettendomi di fare spazio vuoto dentro di me e lasciandomi soltanto imparare: da lei come intellettuale, ma anche da lei come donna. Dalla sua curiosità e disponibilità nel modo di mettersi in relazione con una persona giovane e semplice come me. Dal suo modo di non fermarsi a ciò che “ha da dire”, ma di fare di tutto, nel qui ed ora, per mettere in pratica ciò a cui crede più profondamente: il sapere non è qualcosa di rigido ma uno strumento per allargare le nostre menti, per renderci consapevoli dei molti condizionamenti alla base delle nostre scelte.
Proseguo alternando parole di Barbara Duden (in corsivo) con mie considerazioni.
A partire dalla mia conoscenza della storia della carne, del ‘soma’, voglio contribuire a fare luce sulla spaventosa ridefinizione del sé e dell’io avvenuta negli ultimi decenni e sugli effetti paralizzanti delle moderne tecnologie, in particolare per quanto riguarda il loro effetto sulla percezione di sé e sull’orientamento somatico femminile.
La “scienza” sta invadendo la nostra intimità presentandosi sotto la veste dell’esperto dottore che ti avvisa del tuo “fattore di rischio personale” connesso a casi di tumori in famiglia o a un piccolo nodulo “visto”, o qualsiasi altra piccola sciocchezza “vista” (o potenzialmente visibile), attraverso lo schermo di un’ecografia. Valanghe di inutili test, talvolta anche invasivi, stanno trasformando una esperienza bella come la gravidanza in un vero e proprio incubo, e accompagnano ormai la vita quotidiana di uomini e donne definiti dai loro dottori “soggetti a rischio”. Rischio calcolato su basi statistiche e quindi non personalizzabile.
Ogni donna incinta oggi è considerata in una condizione di rischio, non di pericolo come poteva essere mia madre che negli anni Quaranta ha partorito due gemelle. Il “pericolo” è qualcosa di strettamente connesso ad un problema reale o a un sintomo avvertito e riferito al proprio medico, il cui ruolo dovrebbe essere osservare ed auscultare la paziente. Oggi invece il rischio, inteso come calcolo statistico della probabilità da prevenire, viene prima della percezione sensoriale del nostro corpo. Così, adattandoci a perseguire concetti come il calcolo, la programmazione del futuro, l’ottimizzazione di sé, stiamo de-personificandoci.
Spaventate dal “rischio” ci sottoponiamo ai consigli dei dottori e rinunciamo al contatto intimo coi segnali provenienti dal nostro corpo. Durante la gravidanza non ha più importanza ciò che la donna sente nel suo intimo rapporto con la creatura viva dentro di sé, la sua conoscenza intuitiva e la reciproca collaborazione con l’ostetrica. Quello che conta sono i numeri scaturiti dalle analisi, il calcolo dei giorni e ciò che appare nello schermo dell’ecografia: dati che molto spesso portano a effettuare parti cesarei laddove non sarebbe necessario.
Di fronte a questa e altre tecnologiche aberrazioni, “a-umane non in-umane”, e alla luce di anni di studi, in particolare una ricerca storica sulla percezione somatica di sé delle donne nel Settecento, abituate a ricevere “terapie sim-patiche” da parte di dottori a cui raccontavano “cose vissute con il tatto, con l’olfatto e con il gusto”, Barbara Duden ci invita a riflettere sul disorientamento nei confronti della percezione di sé come corpo che sente, e a recuperare una nuova fiducia nella conoscenza di se stessi.
La sanità sta diventando un luogo privilegiato in cui una sorta di invisibile amministrazione burocratica, in nome della prevenzione della salute, svolge in realtà un vero e proprio controllo della popolazione e mette in atto il peggio del potere finanziario. Quello che sta dietro all’eccessivo sviluppo della tecnologia medica è la logica e il dominio del calcolo della razionalità economica e dell’ottimizzazione del profitto. Del resto viviamo in un mondo in cui l’utile sembra avere più valore della persona stessa....
Già, e questo disorientamento ci porta a confondere ciò che è “utile” con ciò di cui abbiamo realmente bisogno. E invece di comprenderci, entrando in contatto autentico con noi stesse, ci illudiamo che farmaci, curativi, ma anche preventivi o integratori, possano aiutarci a stare meglio.
La società moderna sta assistendo ad un esasperato incremento di “bisogni” che non sono storicamente mai stati considerati tali. Vediamo l’esempio della costruzione del bisogno delle donne che non possono avere bambini, e lo sviluppo di tecniche di fecondazione assistita. Oggi, anche attraverso i mass-media, siamo tutti emozionalmente coinvolti nel bisogno di queste donne, di cui venti anni fa nessuno parlava, e che oggi sono diventate la giustificazione di un nuovo mercato tecnologico e farmaceutico. La logica del mercato finisce così con il gestire le nostre vite, condizionare le nostre scelte. Il corpo della donna è diventato un luogo colonizzato, e il bambino un prodotto opzionale, un prodotto che puoi decidere di avere o non avere. Una scelta che ricade sulle donne, ma in realtà un esempio della infiltrazione del management tecnologico nell’area più intima della persona umana. E quel che è peggio è che concetti del femminismo legati al corpo – autodeterminazione, scelta, controllo, decisione e responsabilità personale – vengono usati strumentalmente per sostenere questa colonizzazione, dipingendola come una presunta emancipazione dal destino biologico.
Si è perso il senso della nascita come evento meraviglioso e indeterminabile, oltre che frutto di un atto di amore, e si è persa la sapienza dell’esperienza delle donne sui propri corpi gravidi. A proposito di questo... l’aborto?
La storia ci insegna che la gravidanza, fino all’Ottocento, era vissuta come una condizione delle donne e il fatto di continuarla o meno era connesso al loro stato, al pericolo eventuale che la nuova nascita poteva comportare, e non concerneva una decisione da prendere nei confronti di un “embrione” alieno. L’idea dell’embrione, come altro da sé pur se dentro di sé, è un conflitto impiantato solo recentemente nella coscienza delle donne. È un esempio di influenza esterna sulla percezione di sé e del proprio corpo. Oggi la pratica dell’aborto, se fatto in tempo e in ospedale, non presenta nessun tipo di minaccia per nessuno. Per questo andrebbe de-criminalizzata. Lo stato non dovrebbe intervenire. La consulenza psicologica obbligatoria, richiesta dalla legge sull’aborto, costringe la donna a vivere un conflitto fittizio che non era presente nella percezione del proprio corpo gravido delle donne vissute prima della moderna amministrazione tecnologica sui nostri corpi. Altro discorso va fatto per la scelta di non avere il bambino in seguito all’esito dell’amniocentesi (fatta fare ormai anche alle giovani donne):a metà gravidanza non si tratta più di aborto, ma di parto indotto..
Insomma su ogni argomento bisogna imparare a fare le opportune distinzioni. Distinguere tra rischio probabile e pericolo effettivo, tra condizionamento esterno e reale bisogno. Distinguere il dolore vero dovuto ad una autentica malattia o alla perdita di una persona cara dalle moltissime sofferenze provocate da un sistema che, pretendendo di “matematizzare la speranza”, sempre più penetra nelle nostre vite private terrorizzandoci con diagnosi probabili, producendo insicurezza interiore e rendendo le donne colonizzabili e dipendenti da continui controlli. E a tutte queste sofferenze inutili (ma reali) magari in fine si aggiunge pure la batosta della “profezia che si autoavvera” intuita da Bateson.
Ho chiesto a Barbara Duden perchè, a livello personale, ha preso tanto a cuore questo tema della de-personificazione connesso all’eccesso di prevenzione e medicalizzazione della società. E lei mi ha risposto raccontandomi la sua storia. Aveva una sorella gemella, fin da bambina debole e soggetta a epilessia. A quindici anni le è stato diagnosticata una malattia e sono state fatte catastrofiche previsioni che hanno cambiato la vita di tutta la famiglia. Poi è morta di altro, un incidente stradale.
Ma è possibile cambiare. La vita è così tanto più bella e importante rispetto a questo volgare management che si è infilato sotto la nostra pelle e dal quale è necessario trovare strade di liberazione.

Bibliografia in italiano: I geni in testa e il feto nel grembo. Sguardo storico sul corpo delle donne, Boringhieri, 2006; Il Corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita, 1994.
(15 ottobre 2006)

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