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La Rivoluzione bloccata

La Rivoluzione bloccata

TUNISIA - Una terra e un popolo prigionieri di speculazione, censura e deriva jihadista. L’analisi politica e culturale di Silvia Finzi dell’Università di Tunisi

Emanuela Irace Lunedi, 03/02/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2014

A due anni dalla Rivoluzione il processo di transizione democratica è arrivato a un punto di stallo. Complice la nuova ondata terroristica, la difficoltà a formare un Governo e gli irrisolti squilibri tra le regioni ricche della costa e i territori poveri del centro-sud. Crisi di consenso e di rappresentanza politica. Corruzione e incertezza del diritto fanno da corollario a una modernità inquieta. Sempre più violenta. Tra contraddizioni e paradossi il Paese dei gelsomini è entrato a pieno titolo nel novero delle cosiddette post-democrazie .Oligarchia e neo-liberismo rappresentano gestione e strumento con cui le èlites - confessionali e laiche - controllano il potere. Perpetuando immobilismo e disuguaglianza. Un sistema rigido, avvitato su se stesso. Con una crescita economica caduta al 2.8% ma con enormi potenzialità in ambito estrattivo. Un bottino ghiotto. Per le lobbies internazionali e per la spregiudicata borghesia affaristica che specula sul capitale finanziario puntando alle risorse del sottosuolo. Riserve di petrolio e gas intrappolati nelle rocce. Una procedura estrattiva vietata nell’UE. Ma non in Tunisia. A cui si aggiungerebbero prospezioni di giacimenti off-shore fotografati da satelliti nel 2010-2011. Risorse naturali capaci di ribaltare i rapporti di forza. Uno scenario che se confermato potrebbe catapultare la Tunisia in cima alla classifica dei paesi produttori. Diventando ago della bilancia di una inedita geopolitica capace di condizionare il futuro economico e finanziario del Vecchio Continente. Intanto, a due anni dall’insediamento dell’ANC, Assemblea Nazionale Costituente, la Tunisia aspetta ancora la propria Carta fondativa. Dal 2011 è però pronto il Codice 680. “Codice degli investimenti”, una sorta di costituzione economica che deciderà sulle riforme a cui collaborano, orientandola, paesi stranieri e istituzioni internazionali del calibro della Banca europea per gli investimenti, OCSE, Banca Mondiale, ecc. Un trasferimento di sovranità sotto l’ala protettrice del capitalismo made in USA. In perfetta continuità con la politica finanziaria iniziata nel 2010 da Ben Ali e interrotta dalla Rivoluzione. Alla tutela della finanza internazionale e al mantenimento degli acquis stabiliti a Douville nel 2011, fanno da sponda le difficoltà di un sistema parlamentare ancora tutto da costruire. Il risultato è l’impasse governativa e il conflitto sempre più polarizzato. Al punto da tracimare nell’attacco fisico ai rappresentanti delle istituzioni. Choukri Belaid e Mohamed Brahmi, deputati dell’opposizione, sono stati uccisi tra febbraio e luglio 2013. Ma sono più di quindici le vittime - tra parlamentari e Guardia Nazionale - finiti sotto gli attacchi dei salafiti radicali. Un’escalation di violenza in parte prevedibile per l’estrema libertà di cui beneficiano elementi jihadisti. È il terrorismo l’arma con cui frange vicine al partito di governo, Ennadha, tengono in scacco il Paese. Da Sfax a Tunisi. Da Sousse a Monastir. Passando per università e moschee. L’incubo della sicurezza si è fatto percettibile bloccando politica e pensiero. Per rendere quotidiana l’insostenibile guerra tra Stato laico o islamista. I movimenti jihadisti che negli ultimi mesi hanno alzato il tiro fino a importare sistemi terroristici mai utilizzati prima ne sono prova. Gli attentati kamikaze di fine ottobre rappresentano un salto di qualità dai risvolti ancora da decifrare. Lo stato d’allerta proclamato nel governato di Kef il 30 novembre scorso è la cifra di un malessere profondo. La Tunisia appare oggi un paese al collasso. Straziato. E l’analisi politica non può prescindere da quella culturale.

Ne parliamo con Silvia Finzi, docente alla Manouba, l’Università di Tunisi, da due anni teatro di scontri tra studenti salafiti e laici. Come mai proprio adesso tutti questi attacchi terroristici?

Ogni volta che c’è una crisi politica la risposta è un atto terroristico. Stiamo vivendo un problema di legittimità e gli spazi democratici si assottigliano. L’attuale maggioranza vuole durare. Nonostante il suo mandato sia scaduto da un anno. L’ANC doveva scrivere la Costituzione e poi indire elezioni politiche. Invece hanno bloccato tutto. I partiti non vogliono perdere le posizioni di potere acquisite. E così non si va da nessuna parte.

Il Governo di coalizione - Ennahdha, CPR e Ettakatol – era nato sulla base di una piattaforma comune e sul valore condiviso della laicità dello Stato, non è più così?

No. Oggi parlare di laicità è diventato un tabù. Viene percepito come un sentimento anti-musulmano. C’è una grande confusione perché si crede che la laicità sia sinonimo di un atteggiamento contrario alla religione. E siccome la popolazione è credente e musulmana pensa che la laicità sia una minaccia alle proprie tradizioni. Ovviamente non è così. Lo Stato laico rappresenta una salvaguardia. E permette a tutti di esistere con la stessa libertà e la stessa dignità. È su questi presupposti che si è compiuta la Rivoluzione.

Da mesi l’università di Tunisi è teatro di scontri tra studenti. Si parla continuamente di velo e Niqab. È realmente questa la posta in gioco?

Oggi alla Manouba si pensa al Niqab mentre si dovrebbe discutere di riforme. Riforma dell’insegnamento e dell’Università. Gli studenti dovrebbero pensare agli alloggi, alla didattica, ai laboratori. All’indomani della Rivoluzione erano questi i temi del dibattito. Non basta aprire Università, bisogna anche che le lauree abbiano valore. Che siano competitive. Invece il livello è sceso vertiginosamente e in questo modo produciamo disoccupati.

Che tipo di riflessione comporta l’ingresso dei salafiti all’università?

Dietro la violenza dei salafiti c’è un progetto di società. Viene criticato il modello occidentale soprattutto in funzione anti-francese. Oggi gli islamisti combattono la francofonia e preferiscono il modello anglofono. All’interno del quale ciascuno adotta le proprie regole e tradizioni. Il vero problema è il pluriculturalismo in cui ognuno vive separato dagli altri seguendo i propri canoni. Induisti, musulmani, cattolici. Così creiamo una serie di ghetti. Io credo invece che ciascuno debba moltiplicare all’interno di sé stesso i vari input. In una dimensione universale e non particolaristica. Non voglio rivendicare la mia identità apostolica romana, buddista o salafita ma voglio partecipare insieme agli altri alla costruzione di uno spazio comune in cui il dogmatismo culturale venga abolito. In questo senso rivendico una identità pluriculturale.

Il problema è che l’Islamismo radicale non è democratico. Gli studenti però sembrano più coinvolti nella questione formale: indossare o meno il velo. È questo l’oggetto dello scontro?

Accettare il Niqab significherebbe ammettere una serie di altre pratiche. Significherebbe apharteid, separazione tra sessi, tra professori e tra allievi. Il Niqab non è una scelta personale. È una scelta collettiva e politica. Nessuno ha il diritto di imporre questo all’università. Eppoi come posso insegnare senza vedere l’espressioni di un viso. Il movimento del corpo. Come posso capire se la mia lezione interessa o se devo modificare qualcosa del mio discorso. Insegnare è soprattutto scambio, empatia. Cosa posso scambiare davanti a un velo nero. Significa che c’è qualcosa che non si può vedere. Qualcosa che non si può dire. Significa che c’è una censura. E come posso trasmettere gli strumenti critici del sapere se c’è una censura…

Che ruolo ha la censura?

La censura ha un ruolo dominante. Come in tutte le dittature e in tutte le democrazie contemporanee. Conosciamo solo quello che ci vogliono far sapere. La manipolazione dell’informazione è una costante a cui è difficile sottrarsi. La censura traveste i concetti politici in concetti identitari. Noi abbiamo fatto una Rivoluzione in Tunisia. Oggi mi domando se l’abbiamo fatta per liberare le menti dalla censura o per affermarne un’altra.







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