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La ragazza che voleva diventare Prefetto

La ragazza che voleva diventare Prefetto

Rosa Oliva - Dalla ribellione individuale alla battaglia comune

Giovedi, 28/10/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2010

Cinquanta anni fa una memorabile sentenza della Corte Costituzionale, apriva alle donne la porta delle carriere fino a quel momento precluse. La persona a cui dobbiamo questa conquista si chiama Rosa Oliva, una ragazza che aveva intrapreso il ricorso costituzionale perché voleva diventare Prefetto. La sua storia, che si arricchisce in questi giorni della nomina a Grande Ufficiale della Repubblica italiana, ci da' lo spunto per riflettere e fare un bilancio sulle donne nel mondo del lavoro.



Partiamo dal 1960, l'anno della sentenza 33. Dopo 12 anni la Costituzione era ancora inapplicata. C'è voluto il coraggio di una ragazza appena laureata per rimettere a posto le cose. Che paese era l'Italia per una giovane donna?

Non era un paese aperto ad accogliere innovazioni nella condizione femminile. Quando esternavo le mie rimostranze sulla segregazione femminile nel mondo del lavoro mi si opponevano delle argomentazioni come “sei sicura che le donne possano davvero fare il prefetto?”. C'era sia l'UDI (Unione Donne Italiane) che il CIF (Comitato Italiano Femminile) però io ne ignoravo l’esistenza, quindi il mio percorso, non per scelta, era all’epoca al di fuori delle associazioni femminili. Ero una ragazza che aveva studiato e non accettava una discriminazione in quanto donna; trovavo la norma del 1919, che escludeva ancora le donne da alcune carriere, ingiusta e incoerente con la Costituzione e quindi mi sono ribellata. E' stato un gesto individuale.



E lei che ragazza era? Quale è stata la sua formazione?

A distanza di cinquanta anni sto provando a ricostruire i contorni di quella giovane. Provengo, da parte di mio padre, da una famiglia meridionale con una cultura radicata profondamente nel diritto e nelle regole. Da parte materna, anche questa una famiglia napoletana, mi è stata tramandata una tradizione quasi totalmente al femminile; le mie tre zie, nate nei primi decenni del '900, hanno lavorato e studiato da sempre conciliando lavoro e famiglia, come del resto una zia e varie cugine da parte di mio padre. Insomma degli esempi di donne emancipate ed avanzate rispetto ai tempi. Quindi un contesto familiare molto stimolante.



Come è nata questa sentenza storica?

Soltanto adesso ho capito, guardando i dati sulla frequenza delle donne all'università negli anni '50, che ero una ragazza privilegiata. Allora non me ne rendevo conto, perché mi trovavo a frequentare un gruppo di studenti e studentesse numericamente pari. Sono stati invece gli studi giuridici che ho intrapreso che mi hanno resa consapevole della discriminazione che stavamo vivendo. Avevo deciso di intraprendere una carriera pubblica e ho cominciato a presentare domande ai concorsi; c'era un bando per la carriera prefettizia che richiedeva tra i requisiti l'appartenenza al sesso maschile. Ho fatto ugualmente domanda e da lì si è aperto il ricorso che ha portato alla sentenza 33.



Dalla discriminazione per legge degli anni '60 ad una discriminazione più subdola, quella attuale. Quale è il cortocircuito sul lavoro femminile?

In Italia le barriere formali sono state del tutto eliminate; quello che manca è arrivare all’uguaglianza sostanziale prevista dalla Costituzione. Per passare dall'eliminazione delle norme in contrasto con i principi costituzionali all'introduzione delle disposizioni previste come necessarie c'è ancora molta strada da fare. Questo è il momento in cui deve essere fatto il salto di qualità. Nei decenni scorsi è stato raggiunto un grande risultato: si è passati dal principio dell'uguaglianza, che non teneva conto della differenza tra i sessi, al principio della parità, che tiene conto delle differenza nell'uguaglianza, al concetto di genere; lo dobbiamo alle lotte del movimento femminista. Poi c'è stato, anche grazie al movimento internazionale delle donne e alla Commissione nazionale per la parità, l'approccio delle azioni positive. Quello che in Italia non è scattato, come invece è avvenuto nei paesi scandinavi e in Spagna, è proprio la capacità dei Governi e del Parlamento di affrontare in maniera concreta la questione e intervenire con dei piani incisivi e delle norme di attuazione dei principi.



Se i Governi non sono stati in grado, secondo lei la società italiana è pronta a recepire questi principi?

Ci sono tanti gruppi di pressione formati da donne che si battono per l'applicazione di questi principi ma questa pressione è limitata dal fenomeno del rifiuto della diversità che è molto comune soprattutto tra le più giovani. Una ragazza di oggi che segue gli studi con successo spesso ritiene sia discriminante mettere in evidenza la diversità di genere. In seguito le donne si scontrano con la realtà, o per l'accesso al lavoro o nell'ambiente professionale; per non parlare poi del problema del lavoro di cura, che nel nostro paese è praticamente solo sulle spalle delle donne, per la scarsa condivisione con gli uomini e i pochi servizi.



Nello scenario odierno di un mercato del lavoro che tende a ridurre le tutele e i diritti conquistati nel '900, le donne sono il classico 'vaso di coccio tra i vasi di ferro'. Cosa accadrà?

Tutta la nostra Costituzione di basa sul principio di garantire la libertà nell'uguaglianza, in particolare tra impresa e lavoro. Però ci si sta allontanando da questo equilibrio, l'attuale governo da' la prevalenza alla libertà e rischiamo che prevalga la legge del più forte, indebolendo il sistema democratico basato sulle regole. E questo incide pericolosamente sulla condizione umana, su quella dei lavoratori in particolare e delle donne ancora di più.



Cosa manca alle giovani donne di oggi ?

A molte, non certo a tutte, manca la consapevolezza, degli ostacoli che incontreranno e di quello che le donne italiane hanno conquistato. Non conoscono le battaglie e le vittorie, non sono consapevoli di quanto la Costituzione e lo stato democratico influiscano sui destini personali. Ho constatato che molti la pensano come me e attribuisco a questo il successo delle celebrazioni dei cinquant’anni della sentenza provocata da un mio ricorso. E, inoltre, molti, tra le giovani donne e i giovani uomini non sanno che questi diritti sono labili e possono essere perduti.



Che cosa è l'associazione 'Aspettare stanca' di cui è presidente?

Per me, e anche per le altre fondatrici, ha rappresentato una possibilità di incanalare la rabbia e la frustrazione vissute nel 2006 dopo l'approvazione della legge elettorale. Ero nel gruppo di donne che aveva seguito in Parlamento l'iter di questa riforma, di cui vedevamo i pericolosi aspetti di carattere generale, evidenziati dall’opposizione in Parlamento e riscontrati in seguito nella sua applicazione. Abbiamo tentato di far introdurre almeno delle garanzie per la presenza femminile. Siamo state vittime di una beffa in quanto sono state fatte approvare norme sulla rappresentanza femminile ad un solo ramo del Parlamento, in modo che non arrivassero in tempo utile per introdurle nella legge elettorale. 'Aspettare stanca' è nata ed è ancora impegnata per sostenere la rappresentanza democratica e la presenza qualificata delle donne nei luoghi decisionali.



Quali sono i suoi prossimi obiettivi?

Sono tra le promotrici, e siamo alla ricerca di altri fondatori e fondatrici, della Rete per la Parità, un’associazione di promozione sociale che, partendo dal patrimonio di conoscenza e riflessione raccolto negli anni da tante associazioni di donne e studiose/i, e dal lavoro del Comitato 503360, costituitosi per le celebrazioni di una lontana sentenza del 1960, vuole costruire con le giovani donne e i giovani uomini la consapevolezza indispensabile per superare indifferenza, e condizionamenti ed impegnarsi insieme, donne e uomini, giovani e meno giovani, per un obiettivo comune: la democrazia paritaria.

 



di Nadia Angelucci

 

(1 novembre 2010)

 

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