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La principessa femminista

La principessa femminista

Lady D - A dieci anni dalla morte e dall’infinito scorrere superficiale di molte parole sul fenomeno Diana Spencer, può valere la pena aggiungere qualcosa per rivalutare la personalità e le scelte femministe di questa donna scomoda

Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2007

Cos’altro può esserci da dire su Diana Spencer, la donna che in vita e in morte fa aumentare le tirature dei giornali, la cui immagine è comparsa sul maggior numero di copertine al mondo? Cos’altro può essere detto in occasione del decimo anniversario dalla sua morte?
Eppure qualcosa c’è: al di là delle parole e giudizi espressi sulla madre del futuro re d’Inghilterra, molto amata dal popolo, come odiata nel suo ambiente e disprezzata dalla élite di intellettuali che arricciano sempre il naso di fronte ai fenomeni di massa, come quello spontaneo e inaspettato verificatosi nei giorni successivi la sua morte e che – come recentemente raccontato nel film “The Queen” - ha fatto traballare la monarchia inglese, costretta a scendere in strada ad annusare fiori di fronte ai milioni di seguaci di Diana, in maggioranza donne.
Sul motivo di tanto amore di popolo – definito da Eric Hobsbawm “privo di ogni lucidità” - per questa principessa indiscutibilmente interessante, considerata buona e infelice da alcuni, incosciente, inopportuna, opportunista e stratega da altri, sono state fatte molte ipotesi, ma quella proposta da Marta Lonzi nel suo volume “Diana: una femminista a Buckingam Palace” (Scritti di Rivolta Femminile, Prototipi, 1997), credo sia una delle meno conosciute. Ciò che di diverso emerge dalle righe di questo volume è il coraggio di osare attraversare i rotocalchi strappalacrime, i freddi giudizi di sociologi, psicologi e storici, per guardare più in profondità, mettendosi in ascolto del comune sentire della gente, ed anche di se stessa.
Marta Lonzi, confessando di avere pianto per la morte di Diana di “un dolore vero, come se avessi perso una compagna di vita”, scrive: “ricordare gli episodi salienti della sua giovane vita spezzata il suo desiderio di non mollare contro un estabilishment potente, era liberatorio. Assurdamente liberatorio – pure nel dolore della morte presente. Credo che questo sentimento sia uno dei valori segreti e più profondi che si nascondono dietro la partecipazione di cordoglio alle sue esequie e che lo studioso, Eric Hobsbawm, non provandolo, non è in grado di comprendere. Piangere la morte di Diana è piangere la fine di un’avventura appassionante, perché un imprevisto aveva portato alla ribalta internazionale una donna che si era rilevata scardinatrice di una cultura antica e patriarcale. Per questo è stata tanto amata, in particolare dalle donne.”
Imbattendosi nella difficoltà di trattare una donna ormai morta, non espressasi scrivendo ma vivendo e compiendo scelte plateali, per “scovare la vera Diana” Lonzi, interessata a rivisitare il percorso imprevisto che ha portato Diana non alla fama internazionale quanto a scegliere di essere se stessa, la cerca in ogni “sua parola detta in prima persona”: siano essi discorsi ufficiali, registrazioni rubate, interviste e facendo largo uso “dell’onestissimo libro di Andrew Morton”, che, oltre alla famosa intervista per la BBC, comprende una parte autobiografica scritta da Diana.
Sin dagli inizi degli anni Ottanta quando Diana inizia ad apparire in pubblico ciò che più piace alla gente non è il suo fascino o il suo futuro destino di regnante quanto il suo proporsi, al di là delle aspettative e delle necessità di casta, come una donna in carne e ossa, piena di timori e desideri, una donna qualsiasi che ha sposato un futuro re, ma che si è ritrovata in pastoie non diverse da quelle di una donna comune: “migliaia di donne – scrive Lonzi – si sono appassionate alla lotta che Diana ha dovuto sostenere con Carlo e la corte, per essere riconosciuta come identità distinta, incompatibile con i ruoli che una cultura patriarcale le aveva predisposto e, quindi, contro gli aut aut e le strumentalizzazioni finalizzate a farle perdere stima e coscienza di sé, per ridurla a una persona subalterna e complementare, una figura rassicurante per l’identità del principe”.
Nell’intervista a Morton Diana racconta i 16 anni di vita a corte esattamente per come li ha vissuti e le sue parole, intense e commoventi, sono così ben riuscite semplicemente perché autentiche e non perchè opera di una “abile manipolatrice dei media”, come è stata definita in una recente intervista a Tina Brown su “Io donna”. Diana davvero desiderava amare ed essere amata e vivere un rapporto di reciproca sincerità. Davvero ha sofferto la fredda indifferenza del marito, il cinismo dell’ambiente di corte, e ha tentato il suicidio tre volte. Davvero è stata, in un primo momento, l’ingenua ragazza spaventata di non essere all’altezza e che col tempo si è accorta – per via di una propria “attitudine a giudicare in maniera autonoma” –di trovarsi in un mondo finto e “privo di rapporti con la vita e i problemi di oggi”.
Diana era una donna viva e vera, in grado di provare sconcerto, ovvero lo “sdegno apocalittico o attonito sbalordimento” che sperimenta la giovane donna quando le crolla ogni fiducia nel patriarca, afferma Marta Lonzi citando la sorella Carla, autrice di “Sputiamo su Hegel” nel 1971.
Il fatto di dare priorità alla propria esigenza di autenticità, annoiandosi palesemente alle cerimonie ufficiali e dicendo pubblicamente che un uomo come il marito, privo di qualità umane nella dimensione privata non può essere un buon re, fanno accostare la mancata regina d’Inghilterra alla riformulazione della politica compiuta dal femminismo negli anni Settanta per cui “il personale è politico”. Leggendo bene le parole della stessa Diana ci accorgiamo di quanto siano disarmanti le sue prese di posizione politica, dirompente la sua determinazione a cambiare lo stato di cose: “Se noi, come società, continuiamo a rendere inabili le donne incoraggiandole a credere che debbano fare soltanto ciò che viene considerato a beneficio della loro famiglia, persino quando queste donne ricevono un danno nel fare questo, se sentono che non hanno mai il diritto di fare qualche cosa solamente per se stesse, se sentono che devono sacrificare tutto per i loro cari, persino a costo della loro salute, della loro forza interiore e della stima di sé, vivranno solamente all’ombra degli altri e la loro salute mentale ne soffrirà”. Come trovare parole più concrete e immediate da rivolgere alle donne schiacciate da una cultura oppressiva nei loro confronti?
Ma a Diana, donna non ideologica, non voleva solo dire qualcosa, anche rendersi utile: “se la famiglia reale non cambia, e non cambiano i suoi rapporti con il resto della società, cesserà di svolgere qualsiasi funzione utile. …vogliamo che la famiglia reale sia riverita in virtù della sua posizione o non preferiamo piuttosto, vivendo in una società moderna, che essa sia ammirata per come affronta i traumi della vita quotidiana?”.
Che altro ruolo può avere oggi una monarchia – rifletteva Diana - se non quello di porsi in maniera moralmente esemplare al proprio popolo? E quale avrebbe potuto essere il suo proprio modo per rendersi utile alla causa delle donne se non trasformare se stessa in un modello femminile esemplare?
Nessuno è prigioniero del proprio ruolo, rispondeva Diana alle giornaliste a proposito di quello che avrebbe potuto fare Carlo: “tocca a lui definire il suo ruolo. Potrebbe fare qualsiasi cosa. Del resto è proprio quello che ho cercato di fare io”, rinunciando a corona e palazzo e diventando regina nel cuore della gente, aggiungiamo noi.
Diana è ancora oggi così amata dalle donne di tutto il mondo perché rinunciando a una prigione d’oro e disincarnata ha permesso a se stessa di vivere la sofferenza di una donna comune. E perchè non usava il linguaggio retorico e distaccato della politica di palazzo, non anteponeva ideali astratti alla soluzione concreta di problemi quotidiani, toccando inconsciamente il desiderio di libertà e integrità di molte donne comuni. Non a caso Diana è più amata dalle casalinghe che dalle donne in carriera, e non è compresa da intellettuali e femministe di matrice ideologica.
Il paradosso Diana, la principessa che ha scelto di uscire dal ruolo perché voleva essere viva e vera, è che invece la sua morte prematura l’ha trasformata in una leggenda, senza più nessuna possibilità di cambiare, di uscire dalla gabbia finale in cui lei stessa si era posta, dando forse troppa importanza al proprio ruolo, e ultimamente soffrendo molto gli “effetti secondari” dell’eccessiva notorietà: perché era una donna debole. Se non fosse morta, sarebbe stata nominata “ambasciatrice umanitaria del Regno Unito” da un uomo ambizioso e opportunista come Blair. E a noi piace pensare che Diana avrebbe fatto di tutto per uscire da questa nuova gabbia, o l’avrebbe saputa volgere in una forma tale da non intaccare la propria salute mentale. Ma un incidente stradale, la causa più comune di morte dei nostri tempi, l’ha trasformata da donna in leggenda, il 31 agosto 1997.

(4 settembre 2007)

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