Ci sono libri che hanno bisogno di essere meditati, perché nell'immediatezza non ti convincono. Pagina dopo pagina trovi la parola di troppo, quella che ti allontana, che ti delude, che si ripete. Quella che per te, lettore, non è indispensabile. Ma forse, pensi, lo è per l'autore. E allora ti dai un tempo extra, per entrare (tu lettore) in quei panni che lui (l'autore) ha deciso di togliersi. In questo caso sarebbe più corretto dire strapparsi. Perché con La prima pietra (Rizzoli), Krzystof Charamsa, ex Ufficiale della Congregazione della Dottrina della Fede, che lui puntualizza essere stata prima Sant'Uffizio e Santa Inquisizione, ha certamente voluto mettersi a nudo in nome della verità. Della sua verità. Quella che lui vorrebbe diventasse universale, ma rimane invece parziale, perché la vita di tutti poggia su certezze relative. E proprio qui forse, nella ferocia della sue imputazioni contro la Chiesa, quelle con cui vorrebbe passare alla storia per avere rotto - come cita la quarta di copertina - un «silenzio millenario», che la sua testimonianza perde di spessore.
Da questo libro, annunciato ad ottobre 2015, insieme al suo amore per il compagno catalano Eduard, nell'imminenza del Sinodo - e che già per questo odorava di marketing e business - apprendiamo che Krzystof ha un fratello e una sorella, una madre pia, un padre che ha abbandonato la famiglia. Apprendiamo di una fede sincera in una Polonia austera e piena di contraddizioni, di una sessualità rifiutata e respinta, di una progressiva scoperta dei propri desideri vissuta come liberazione che diventa libertà. Krzystof ce ne racconta i passaggi fondamentali, tutti avvenuti col supporto dell'arte, nelle sue molteplici forme, dalla letteratura al cinema al teatro. E questo gli fa onore. Krzystof è un uomo colto, profondamente colto. E' un teologo raffinato. E non v'è dubbio che tanta conoscenza e coscienza abbiano aumentato la sua conflittualità, interiore ed esteriore. E la sua sofferenza. Eppure qualcosa in questa autobiografia non torna. C'è troppa rabbia, forse legittima, ma eccessiva, perché lui comunque 'dentro' c'è stato, prima accondiscendendo, poi lottando, poi uscendo. Ed è vero che è questo a rendere forte e autentico il suo punto di vista, ma il rancore eccessivo, si sa, qualifica chi lo trasmette. Lo stesso 'adeguamento' del linguaggio, sicuramente indispensabile a rendere il testo accessibile e divulgativo, lo penalizza, perché non pare il suo. Chi lo ha sentito parlare, conosce l'espressività dei suoi occhi e dei suoi gesti, che irradiano incanto. Conosce la forza delle parole scelte e pronunciate con cura, mai banali. E per questo convincenti, perché capaci di arrivare al cuore e al cervello. Ma nel testo, che a tratti pare disomogeneo, tanta profondità - che la scrivente reputa vera - non emerge. Termini come 'rimorchiare', che lui utilizza con riferimento a un collega che di lui s'era invaghito, stonano.
La descrizione del suo primo incontro con Eduard in un motel, soddisfa il bisogno di voyeurismo, non di umana comprensione, e meno che meno compassione. Il suo rivelare il caso di un tentato abuso da parte di un prete su un minore, nella fattispecie un suo parente, sa di strumentalizzazione. Il suo continuo definire 'criminale' la Chiesa, non ci dà un'idea nuova di un'istituzione che - è lapalissiano - fa acqua da tutte le parti e dalla quale nessuno si aspetta più santità. Che la Chiesa si sia macchiata di terribili reati, a cominciare dalla pedofilia e dall'omertà, che vanno denunciati, purtroppo lo sappiamo. Ma è quella che abbiamo e ce la dobbiamo tenere, seppure auspicando che sappia riparare, chiedere scusa, confrontarsi con la nuova società, cambiare, evolversi, impoverendosi materialmente e divenendo più evangelica, come chiede Papa Francesco.
E aprendosi non solo agli omosessuali, ma ai divorziati, alle donne che hanno abortito, alle famiglie arcobaleno. Anche Krzystof lo afferma, ma fa girare tutto, o comunque troppo, attorno alla non accettazione dell'omosessualità, che è il 'suo' problema, non è il problema della Chiesa. Che il 50 per cento dei preti sia gay, come lui dichiara, a chi interessa? Se costoro hanno deciso di tacere, di non compiere la propria lotta per l'affermazione della propria identità, ne patiranno le conseguenze assumendosene la responsabilità individuale. E non perché sono gay, ma perché hanno abdicato alla felicità. Anche i credenti, nel confessionale, sanno giudicare se quanto viene suggerito loro è 'giusto' o 'eccessivo'. Sanno riconoscere una sincera omelia da una accidiosa. La maggior parte dei credenti desidera una Chiesa diversa e senza celibato. Perché la maggior parte dei credenti conosce e pratica l'amore e giudica anacronistico e inutile il sacrificio. La prima pietra è un testo di rara tristezza. Che sa di spreco. In tempi in cui la gente si vende per 'migliore' di quel che è, in cui va di moda il millantato credito, Charamsa ne esce in difetto: difetto di intuito, emotività, sapienza. Ne esce svilito. Lui che invece, ripeto, ha ricchezza d'animo, coraggio, sensibilità, cultura. E questo dispiace. Perché in queste pagine si respira freddezza, rancore, calcolo - basta un rapido computo tra l'outing e la stesura - e una certa supponenza, forse involontaria, ma tale è. Quella appunto di raccontare la verità. E invece, purtroppo, per chi ha fede come per chi non l'ha, qui di nuovo non c'è nulla. Tranne tanti particolari intimi su Krzystof Charamsa in oltre 300 pagine che avrebbero potute essere di meno e più sobrie. Ecco perché La prima pietra, che certamente andrà a suffragare e ad alimentare le tesi di quanti manifestano avversità verso una Chiesa ricca e ipocrita e centro di potere, è un libro amaro.
Lascia un Commento