Poesia, Gabriela Fantato - Il tempo, il suo scorrere inesorabile come sabbia nella clessidra, che segna il passo dell’esistenza, è il centro tematico di Gabriela Fantato
Benassi Luca Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2006
Nella poesia di Gabriela Fantato, una delle voci più mature nel panorama nazionale, la vita è oggetto di continua ricerca: dal farsi donna alla scoperta delle origini familiari, ed è una vita che si muove per fughe verso luoghi segnati dal passaggio del tempo e del destino. Il tempo, il suo scorrere lento eppure mai sufficiente a contenere i desideri dell’essere umano, il suo fuggire inesorabile come sabbia nella clessidra, il tempo che segna il passo dell’esistenza è spesso oggetto di poesia e tematica costante di molti poeti di tutte le epoche. Anzi si potrebbe affermare, senza paura di sbagliare, che non c’è autore che almeno in qualche testo non abbia posto il tempo al centro della propria riflessione poetica. È proprio il tempo a costituire il centro tematico di una delle migliori poetesse italiane contemporanee. Gabriela Fantato intitola la sua ultima raccolta il tempo dovuto – poesie (1996-2005) (Editoria&spettacolo, Roma 2005), e il titolo è sintomatico di una visione del proprio universo poetico, trattandosi di un’antologia che raccoglie in un unico macrotesto il meglio di quanto pubblicato fino ad ora. Nata a Milano nel 1960, la Fantato ha pubblicato Fugando (1996), Enigma (2000), Moltitudine (2001), Northen Geography con traduzione di Emanuel Di Pasquale (2002) e la plaquette Forse una geometria (2005). Ha scritto testi per il teatro e si occupa di critica letteraria. Nel 1994 ha fondato la rivista di letteratura, arte e filosofia La mosca di Milano che dirige tuttora.
La poesia di Gabriela Fantato trova il suo fondamento in un dinamismo del dettato poetico che affronta come centrale il proprio vissuto. La vita è l’oggetto di una ricerca che attraversa tutti i territori esplorati dalla poetessa: dal farsi donna di Fugando alla ricerca delle origini familiari e paterne dei poemetti Al delta del Po e Frantumi; ed è una vita che si muove per fughe, per balzi e soprattutto per cadute verso luoghi sconosciuti, segnati dal passaggio del tempo. Esso scorre a volte per istantanee, in uno stile fatto di strappi linguistici, parco di segni d’interpunzione, e ricco di sintagmi dal forte valore evocativo come in Fugando; e a volte per lente parabole in discesa verso i territori del metafisico e, in ultima analisi, del destino. In quest’ultimo caso si tratta di fugati concepiti in uno stile quasi narrativo, dagli esiti notevoli e fecondi d’ambiguità sintattiche e riuscite soluzioni poetiche, come in Northern Geography e soprattutto in Forse una geometria. È un tratto comune nella produzione della Fantato l’uso di metter interi versi o strofe tra parentesi creando suggestive poesie nelle poesie. I luoghi, che pur hanno un ruolo fondante nel disegnare una geometria di senso, fatta di viali cittadini, alberi che bucano la nebbia, metropolitane, strade e case di Milano, questi luoghi rimangono come sfondo di quinte nel teatro dell’esistenza. Scrive Mauro Ferrari nella prefazione a Il tempo dovuto: Tutta la poesia di Gabriela Fantato è intessuta di fughe, balzi, cadute, corse, e un’elencazione che ne tratteggiasse le modalità e la varia fenomenologia sarebbe ben poco utile: condensiamo solo una ricerca appena superficiale dicendo che in questi versi ci si muove freneticamente per contrastare la naturale caduta verso il baratro del tempo: il muoversi nel tempo e nello spazio è quindi l’immagine stessa della vita (tanto che la vita è nei testi uno sprofondare, è il tuffo, la caduta…”dal sesto piano”). Non c’è dubbio di trovarsi di fronte ad una delle voci più ricche e mature nel panorama nazionale, soprattutto di quella generazione di poeti nati dopo gli anni ’60 e che hanno pubblicato i loro primi libri negli anni ’90. Una generazione che per varie ragioni è rimasta poco ascoltata dalla critica e dalla grande editoria e che indubbiamente merita una maggiore attenzione da parte del pubblico.
Da Fugando (1996)
ogni notte che s’avvicina
lei sente la sua bocca
bagnata che aspetta soltanto
di averla (laggiù sarebbe
corpo di corpo a nutrire
le pareti della meravigliosa
sua sparizione)
e tiene lo spazio nel letto
di lui che respirando
ha chiamato dal fondo
non si sa quale acqua malata
Da Moltitudine (2001)
(figlia di un giorno)
la bambina siede all’incrocio
aperto ai tubi profondi e gocce salate
siede al silenzio incubata
appesa in un filo di zucchero
(il lupus le ha preso la faccia
quella tonda piega-bambina
mentre si gonfia il cervello di stelle)
resta soltanto sua madre a cantare
la notte e inventa acini dell’uva
matura come l’estate di allora
come l’arte antica che fa
lotta e amore composti in carezza
(forse qualcuno nel letto sul fondo
le vede le lucertole veloci
al ciglio del viaggio salato
traiettoria sottile e rimbalzo di tempo)
(i tre gradi dell’invocazione)
signora di ogni angolo acuto
madre degli acciaccati ai fianchi
(di quelli che hanno un foro
aperto, a picco dentro al mondo)
vieni con le braccia a tenaglia
e latte alle molte mammelle
sorella di una polvere a tastoni
che copre ogni ferita
dammi quel niente della lingua
nel sangue che mi scorre
(il tuo fiato sa il filo della vita
e le paure alte ai giorni)
vieni bambina scura della notte
con le tue lune nel tacco
e le tue labbra rosse da ragazza
dimmi il passo su, alla stella
e la voce dei solchi nella mano
tra le dita strette
al mondo che mi tiene
(soltanto un figlio)
come una sete grande
che cerca spazio dentro la gola
siede la donna alle sue pieghe
ai lati del lenzuolo vuoto
e tesse cantilene all’uncinetto
chiamando piano quel fagotto
di echi e voce, figlio suo e del vento
come di fame avvolta
senza che mai la sazi un pane
aspetta nell’angolo dove ha seduto anni
(del silenzio nutre quell’abbracciare
quel tanto vorticare a notte)
e invoca ancora alti gli dei
mentre il giorno passa lento
come quasi un anno fa
Da Northern Geography (2002)
doppio su sfondo
ti spio donna di terra meridiana
oltre le voci che ci scorrono attorno
ti vedo persa nella sedia
scopro nel tuo volto una paura
(quel non volere stare al mondo
e il salto nel silenzio)
sento il tuo viso al muro della resa
in una vita chiusa al cielo
dentro a passi controvento
(resti specchio di un momento
compagno di un tremore)
affianco sta la vita, stretta condanna,
sola possibilità di non sparire.
Da Inediti (2001-2005)
Torna ancora una mattina di nebbia
(ogni bocca, assomiglia a un paese
dove correvano i bambini).
Nei cortili qualcuno spera
guarigioni e il tempo si riga
tra i fili della biancheria, deraglia
nella finestra. Mia madre ha ancora
il suo sorriso di ragazza
spalancato nell’addio.
Un tempo ci assomigliavamo
(occhi sgranati nella durezza di Milano).
Adesso inseguo il coraggio
Della pietra, il poco che resta
e il bianco affoga tutto il male
fiaccato dentro i gradini.
Le labbra sanno intatto il perdono,
punizione non pagata.
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