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La poesia che schiude le sue ali

La poesia che schiude le sue ali

Isabella Fancelli -

Benassi Luca Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2008

Di Isabella Fancelli e del suo “Le ali socchiuse”, pubblicato da Edizioni del Giano nel 2007, sappiamo solo che si tratta di una poetessa nata a Terni nel 1965 e che questa piccola raccolta è il suo esordio poetico. Una sua foto, in fondo al libro, rivela uno sguardo profondo, intenso, attraversato dalle nubi dell’inquietudine attraverso le quali filtrano i raggi luminosi della gioia e della passione. Libri così sono rari: le poetesse e i poeti amano indugiare su loro stessi, vantare pubblicazioni, saggi critici, attività culturali, partecipazioni a premi e antologie. Amano dunque la visibilità in questo piccolo mondo affollato di troppi nomi, troppa carta e poca poesia veramente valida.
Isabella Fancelli, invece, pare affidare tutta se stessa alla parola poetica; chiede al lettore di concentrarsi esclusivamente sulla poesia, di accarezzarle l’anima andandola a cercarla nei versi, negli spazi bianchi, nel suono del linguaggio. Leggere “Le ali socchiuse” è un po’ come leggere i lirici greci arcaici, quegli autori, tra i quali appartiene anche la somma Saffo, dei quali abbiamo solo un nome, una città di nascita e i pochi testi tramandati come citazioni nei trattati di grammatica o nei papiri scampati fortunosamente alla distruzione. Quasi nulla dunque, solo la straordinaria bellezza dei frammenti che hanno resistito ai secoli per giungere fino a noi. Anche Isabella Fancelli, scrive per frammenti: testi brevi, a volte una manciata di versi, piccoli pezzetti luccicanti d’anima che fanno apparire in trasparenza un mondo complesso, vissuto con la profondità di un sentimento mostrato in tutte le sue tonalità: la paura della bimba, il dolore dell’adolescente, la sofferenza, la passione, la gioia, l’amore della donna adulta. Si tratta di finestre aperte su un vissuto fatto di viaggi, di passioni, di strette di mano, del passaggio difficile dalla bambina aggrappata alla mano del padre alla donna adulta e consapevole, pronta al transito delle generazioni. La poesia della Fancelli ama la luce, l’abbaglio, l’esplosione del colore, il verso breve, spesso monosillabico, che contrasti con una monocromia di ombre, di chiaroscuri, di inquietudini che albergano nell’animo delicato della nostra poetessa.
Scrive Plinio Perilli nella prefazione al volume: “e la poesia che ci investe, ci giunge dal lungo viaggio interiore di Isabella, è una mappa, una tavolozza esemplare, moltiplicata e variata di chiaroscuri; tono su tono, la gioia impreziosisce ogni ombra delusa, e le nostre piccole, fragili ombre addolciscono, comprovano e rincuorano, vorremmo dire, i cieli di troppa luce, troppo alti e irraggianti, battaglia e pace di ogni ‘luce tentata invano’”. È questa una poesia del viaggio. Un viaggio compiuto veramente in India, a Goa, a Benares, a New Delhi, come testimoniano le annotazioni a margine di alcuni testi; quasi un diario, una dimensione confessionale che però subito piega verso l’interno del cuore, verso un’interiorità dove si svolgono i riti di passaggio, le mutazioni della consapevolezza. Ad Isabella Fancelli interessano i gesti minimi: la goccia, il petalo del fiore, il respiro del vento, il fruscio, il volare di una piuma. Sono queste le metafore di un’anima che si apre e si mostra, del passerotto che sporge il becco dal nido e schiude le ali per spiccare il volo verso le vastità del mondo. La poetessa riesce a registrare l’attimo, il momento esatto in cui il fruscio della piuma testimonia il grande salto, la capacità di conoscere se stessi e farsi poesia.



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TESTI



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Le ali socchiuse

non più fruscii nel cielo
le ali socchiuse
immobili
i colori spenti dal tempo
unico superstite di se stesso
emerso dai ricordi
paziente e inesorabile
mi ha travolto repentino
come torrente in piena
mi ha inghiottito
nella goccia che sola
rotola ora
dalle crepe e dai solchi
giù dalle curve assottigliate
e dagli angoli erosi
delle mie ali
per unirsi
alle mille altre cadute
a riempire l’aria
di suoni uguali
io
timida goccia
effimera nota
del suo epilogo trionfale

(Goa 17-2-96)



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Trema ancora
sulle labbra chiuse
disperato rimpianto
il bacio
che non ti diede
come un tonfo
in fondo al pozzo
soffocato
dalla mia paura



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La voce
di un bimbo che nasce
è come un mulino
che spezza
le pallide acque
di un fiume di lacrime


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Al vento d’aprile
nevica il ciliegio
dolce solitudine

trovo
nel dissolversi di un sogno
la mia malinconia

(22 aprile 2008)

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